L’ex sindaco di Londra (nettamente favorito) e il ministro degli Esteri Jeremy Hunt si contenderanno la leadership dei conservatori e la carica di Primo Ministro. Chi vincerà si troverà a soli 3 mesi dall’uscita senza accordo dall’Ue, che potrebbe avere conseguenze perfino sull’integrità del Regno Unito
Sarà uno tra Boris Johnson, ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri, e Jeremy Hunt, attuale responsabile del Foreign Office e per anni ministro della Sanità, a raccogliere l’eredità di Theresa May come leader dei conservatori britannici e Primo Ministro del Regno Unito.
È stato questo l’esito delle cinque votazioni che i 313 rappresentanti dei Tories a Westminster hanno tenuto la scorsa settimana, riducendo il novero dei candidati da 10 ai 2 che si contenderanno l’arrivo a Downing Street. Johnson e Hunt si sottoporranno ora al giudizio dei circa 160.000 iscritti al Partito Conservatore, che dopo una fase di dibattiti tra i contendenti esprimeranno la loro preferenza tra il 6 e l’8 luglio. Il nome del vincitore verrà annunciato nella settimana che si aprirà lunedì 22 luglio, e l’insediamento alla guida del Governo di Sua Maestà avverrà entro la fine del prossimo mese.
Come da previsioni, l’indiscusso favorito per il successo finale è Johnson, che a sorpresa si è assicurato il sostegno di oltre la metà del gruppo parlamentare conservatore (160 deputati si sono espressi in suo favore), platea che si annunciava per lui decisamente più ostica rispetto alla comunità dei militanti, composta in larga parte da benestanti over 60 poco inclini al moderatismo.
In questa prima fase della campagna per la leadership del partito l’ex primo cittadino londinese ha confermato la sua fama da falco antieuropeo e abile imbonitore in grado tanto di accendere quanto di dividere l’elettorato, in primis affermando che da premier porterà il Paese fuori dall’Ue il 31 ottobre in ogni caso, senza tuttavia escludere che il Withdrawal agreement raggiunto lo scorso autunno da May con Bruxelles può ancora essere modificato (eventualità da mesi esclusa da tutti i leader dell’Unione), e in seguito promettendo una cospicua riduzione di tasse per i contribuenti britannici più abbienti.
Solo l’emergere improvviso di uno scandalo o il manifestarsi di un evento dirompente sembra poter evitare il successo di Boris Johnson, che rispetto al suo tentativo (fallito) di succedere a David Cameron nel 2016 sta dimostrando una determinazione e un impegno decisamente superiori, malgrado permanga la sua tendenza caratteriale a essere il principale rivale di se stesso.
Tuttavia, il compito che si troverà davanti qualora riesca a realizzare la sua ambizione di diventare Primo Ministro si annuncia già da ora molto complesso. Una volta completato il passaggio di consegne con Theresa May, mancheranno infatti solo 3 mesi alla deadline per la Brexit stabilita dal Consiglio europeo di aprile, e in quei 90 giorni si verificheranno una serie di eventi che complicherebbero eventuali negoziati: la pausa estiva delle attività parlamentari sia a Londra che a Bruxelles, le convention di conservatori e laburisti della seconda metà di settembre (in occasione delle quali il ritmo dei lavori a Westminister rallenta sensibilmente) e, soprattutto, il rinnovo della Commissione Ue e dei vertici di tutte le principali istituzioni comunitarie.
Se a questo scenario si aggiunge che il cambio di inquilino a Downing Street non risolverà i problemi di governabilità nella Camera dei Comuni (dove i conservatori, le cui divisioni sul divorzio dall’Europa sono costate il posto a May, continueranno a non avere una maggioranza) e che una personalità come quella di Johnson rischia di radicalizzare ancora di più un quadro politico-sociale, quello del Regno Unito, ormai caratterizzato da una divisione tribale tra Leavers e Remainers, il quadro si annuncia ai limiti dell’esplosivo. In un contesto di questo tipo, nulla può essere escluso nella seconda metà dell’anno: da una rottura traumatica con l’Unione europea a un accordo a sorpresa con Bruxelles, dalla convocazione di elezioni anticipate (dalle quali potrebbero uscire vincitori i laburisti di Jeremy Corbyn) fino all’ipotesi ora inimmaginabile di un secondo referendum sul divorzio dal resto del Continente.
Dunque, gli eventi che seguiranno la scelta degli iscritti al Partito Conservatore potrebbero rivelarsi potenzialmente come i più dirompenti nella storia recente della Gran Bretagna, che in caso di no deal potrebbe vedere messa a rischio non solo la sua tenuta economica, ma anche la sua stessa integrità territoriale (la Scozia si è già detta pronta a ritentare la via del referendum di indipendenza, e non sarebbero da escludere sviluppi imprevedibili anche in Irlanda del Nord, qualora si tornasse a una frontiera con Dublino). Se la responsabilità che avranno i circa 160.000 militanti Tories appare non di poco conto, quella che assumerà Boris Johnson (o, in caso di colpi di scena, Jeremy Hunt) si profila in grado di far perdere il sonno.