Malgrado l’umiliazione della sentenza con cui la Corte Suprema ha annullato la sospensione dei lavori parlamentari, il Primo Ministro non arretra e fa terra bruciata a Westminster. Tra trattative fantasma con l’Ue e minacce di elezioni anticipate il no deal sembra ineluttabile, a meno che non si verifichi un ennesimo colpo di scena
Ogni volta che si pensa che, almeno per qualche tempo, la saga della Brexit non regalerà nuovi colpi di scena, si finisce per rimanere regolarmente sopresi dall’abilità che la politica britannica ha sviluppato, dal giugno 2016 in poi, nel rendere sempre più convulsi e indecifrabili gli eventi legati all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
A distanza di circa due settimane dalla sospensione delle attività parlamentari decretata a fine agosto dal primo ministro Boris Johnson, martedì 24 settembre la Corte Suprema della Gran Bretagna ha infatti dichiarato all’unanimità illegittima e nulla la decisione del premier, poiché nella visione degli alti giudici un’interruzione di oltre un mese dei lavori di Westminster non era giustificata se non dalla volontà di ostacolare la funzione di controllo dell’Esecutivo che la Costituzione assegna alla Camera dei Comuni.
La sentenza della Corte Suprema rappresenta un’ulteriore umiliazione per Johnson, il quale da quando è arrivato a Downing Street nel mese di luglio non ha fatto altro che racimolare sconfitte parlamentari e ripetute sconfessioni (come testimoniato dalla perdita della propria maggioranza e dall’aperta ribellione dei settori più moderati del Partito Conservatore) della sua strategia tesa a garantire a ogni costo il divorzio di Londra da Bruxelles il prossimo 31 ottobre, con o senza un accordo.
Ciò nonostante, il Primo Ministro non ha manifestato la minima intenzione di tornare sui suoi passi o anche solo ammorbidire le proprie posizioni sulla Brexit, e durante l’intervento tenuto a Westminster nella serata di mercoledì 25 settembre è andato all’attacco su tutta la linea, definendo ‘sbagliata’ la decisione degli alti giudici e sfidando l’opposizione a presentare una mozione di sfiducia al Governo o, in caso contrario, a ‘farsi da parte’ per permettere il rispetto della volontà popolare espressa con il referendum di oltre 3 anni fa. Il tutto, condito dal tipico linguaggio del personaggio Boris Johnson, il quale ha più volte sfiorato l’insulto nei riguardi del leader laburista Jeremy Corbyn e dei deputati che sono intervenuti per contestarne le scelte, senza fermarsi neppure di fronte al ricordo di Jo Cox (parlamentare del Labour filoeuropea, assassinata pochi giorni prima del voto del 2016), nei cui riguardi si è spinto ad affermare che ‘il modo migliore per onorarne la memoria sarebbe portare a compimento la Brexit’.
Ancora una volta, al momento non è possibile rispondere all’abituale domanda ‘e ora cosa succede?’ in merito ai tempi e ai modi del divorzio della Gran Bretagna dall’Unione, ma non ci si può sottrarre dall’evidenziare che Johnson con il proprio atteggiamento sta accentuando sul piano sociale la frattura tra i sostenitori del Leave e i fautori del Remain, che già adesso ha assunto caratteristiche simil tribali e che, se fomentata ulteriormente, potrebbe persino rivelarsi preoccupante sul piano dell’ordine pubblico.
Una condotta irresponsabile, quella del premier, che sembra confermare i sospetti di quanti sostengono che il vero obiettivo del capo dei Tories non sia mostrarsi inflessibile per raggiungere in extremis un accordo con Bruxelles (continuano a rimanere ignoti i progressi nelle trattative sbandierati da Downing Street, mentre il 30 settembre scadrà l’ultimatum della Commissione Ue al Governo britannico in merito alla presentazione di alternative al backstop nordirlandese), ma forzare lo scenario del no deal e provocare la convocazione di elezioni generali anticipate, in vista delle quali lancerebbe un’Opa sul voto euroscettico interpretando il ruolo di campione del popolo contrastato dall’establishment.
Solo così troverebbe una spiegazione logica la scelta di Johnson di fare terra bruciata in quella stessa Aula di Westminster cui spetterebbe l’ultima parola su una sua eventuale, per quanto ormai improbabile, intesa con l’Ue, e non è affatto scontato che un disegno di questo tipo sia destinato al fallimento. Se la situazione assumesse davvero questi termini, il Primo MInistro potrebbe difatti contare sull’indecisione cronica dei laburisti sulla questione europea (l’ultimo compromesso voluto da Corbyn mira alla convocazione di un secondo referendum, da tenersi quando i laburisti saranno di nuovo al Governo e rispetto al quale il partito dovrebbe mantenersi neutrale) e sulla frammentazione del voto nel campo del Remain, nonché sulla crescente impazienza degli altri 27 Stati membri dell’Unione, che potrebbero non essere più disposti a concedere a Londra proroghe inconcludenti.
Uscendo dal campo delle ipotesi, l’unico punto fermo al momento è rappresentato dalla Legge approvata nella prima metà di settembre dalla Camera dei Comuni, in base alla quale il premier dovrà chiedere un rinvio della data di uscita dall’Ue dal 31 ottobre al 31 gennaio 2020, qualora non abbia raggiunto un accordo con la controparte comunitaria entro il prossimo 19 ottobre. Boris Johnson ha però più volte dichiarato di non essere disposto a rimandare il giorno del divorzio da Bruxelles, opzione da egli definita come ‘resa’ e ‘tradimento’, anche a costo di assumersi la responsabilità di violare una norma vigente.
In altri termini, tutto lascia pensare che ci si stia avviando ineluttabilmente verso una rottura traumatica dei rapporti tra Regno Unito ed Europa, a meno che non intervenga un ennesimo colpo di scena a cambiare le carte in tavola. E se c’è una costante in questa storia che sembra non finire mai, è che ciò che sembrava impensabile può diventare realtà da un momento all’altro.