L’accordo raggiunto tra Regno Unito e Commissione Ue aveva fatto intravedere spiragli per una conclusione della vicenda, ma Westminster ha nuovamente scompaginato gli eventi. I 27 Stati europei dovrebbero concedere un ulteriore slittamento della data del divorzio, ma l’incertezza sui prossimi passi rimane intatta
Sembra destinato a concludersi con una nuova proroga della data di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea l’ormai infinito romanzo della Brexit, che nell’arco dell’ultima settimana ha visto scrivere ulteriori imprevedibili pagine.
Tutto è cominciato mercoledì 16 ottobre, con l’annuncio del raggiungimento di un accordo sul divorzio arrivato in contemporanea dal primo ministro del Regno Unito Boris Johnson e dal presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, sulla base di un nuovo protocollo sull’Irlanda del Nord e di una modifica della dichiarazione politica sulle future relazioni tra Londra e Bruxelles sottoscritta nel lontano novembre 2018 da Theresa May.
In breve, Johnson è riuscito in poche settimane ad aggirare l’ostacolo rappresentato dal possibile ritorno a un confine visibile tra Ulster (britannico) protestante e Repubblica d’Irlanda (europea) cattolica, concordando con la controparte un meccanismo che darebbe vita in sostanza a una frontiera nel Mare d’Irlanda, dove i controlli sulle merci in ingresso nell’isola irlandese sarebbero a carico dei funzionari britannici e non verrebbero applicati dazi ai prodotti destinati a rimanere nel Regno Unito.
Inoltre, l’Irlanda del Nord formalmente farebbe parte dell’area doganale della Gran Bretagna, ma nei fatti rimarrebbe legata alle norme dell’Unione europea su mercato interno e aliquote Iva. Questo particolare regime per l’Uster entrerebbe in vigore il 1° gennaio 2021, una volta terminato il periodo di transizione previsto dall’intesa, e verrebbe sottoposto a un voto di conferma del Parlamento di Belfast a distanza di quattro anni dalla sua applicazione. Quanto negoziato dall’inquilino di Downing Street, tuttavia, non ha soddisfatto il DUP, partito unionista nordirlandese fondamentale, con i suoi 10 seggi, per la tenuta della traballante maggioranza conservatrice a Westminster.
Dopo il via libera all’accordo da parte dei Capi di Governo Ue, arrivato nel Consiglio europeo di giovedì 17 e venerdì 18 ottobre, tutto faceva pensare che ci fossero spiragli affinché la Camera dei Comuni potesse chiudere una volta per tutte la questione nella seduta straordinaria di sabato 19 ottobre, ma ancora una volta una votazione del Parlamento britannico ha regalato un esito inatteso. In quella circostanza, infatti, i deputati hanno deciso di subordinare l’approvazione dell’intesa raggiunta da Boris Johnson al varo della legislazione necessaria per recepirne il contenuto (il cosiddetto Withdrawal Agreement Bill), innescando di conseguenza l’obbligo per il premier di chiedere un rinvio della separazione da Bruxelles dal 31 ottobre al 31 gennaio 2020, come disposto dal Benn Act votato dai parlamentari a settembre.
Proprio in questa circostanza l’intera vicenda ha raggiunto delle vette prossime al grottesco, dal momento che Johnson ha indirizzato due lettere ai vertici comunitari: una non firmata con cui richiedeva la proroga della Brexit e un’altra, firmata, nella quale argomentava contro un ulteriore slittamento dell’uscita della Regno Unito dall’Europa. Ciò nonostante, il Primo Ministro non si è arreso all’idea di non poter mantenere la promessa di archiviare la pratica il 31 ottobre e, all’inizio della settimana, ha tentato prima di forzare il voto di Westiminster sull’accordo (venendo fermato dallo Speaker John Bercow) e, in seguito, di ottenere un primo voto favorevole sul Withdrawal Agreement Bill, riuscendo in questa occasione nel suo intento. Tuttavia, pochi minuti dopo la sua vittoria il premier ha dovuto mandare giù la bocciatura dell’ordine dei lavori proposto dal Governo, in virtù del quale l’iter parlamentare della normativa per recepire l’accordo con Bruxelles si sarebbe dovuto concludere in 3 giorni, entro oggi 24 ottobre.
Al momento, Boris Johnson ha sospeso ogni iniziativa in attesa della risposta dei 27 Stati membri dell’Ue alla richiesta di proroga da egli avanzata sabato scorso, e ha fatto trapelare che in caso di rinvio di alcuni mesi punterà ad andare a elezioni anticipate (per la cui convocazione ha bisogno del sostegno delle opposizioni) prima di Natale, al fine di ottenere dagli elettori il mandato a superare lo stallo dovuto, nella sua opinione, all’ostruzionismo di Westminster nei confronti della volontà popolare espressa con il referendum del 2016.
Come si ipotizzava in apertura, lo scenario più plausibile è che i Governi europei concederanno nei prossimi giorni uno slittamento del Brexit day, che potrebbe rivelarsi anche di poche settimane (come desiderato dal presidente francese Emmanuel Macron), ma certamente il clima di incertezza sugli eventi continuerà a rimanere intatto, con il consueto ventaglio di eventi che va dal no deal a una seconda consultazione sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione. Senza contare, poi, che la definizione delle condizioni del divorzio non concluderebbe il processo, ma costituirebbe ‘solo’ la fase preliminare alle discussioni (prevedibilmente altrettanto complicate) sulle future relazioni economico-commerciali tra Londra e Bruxelles.