Mentre il governo americano cerca di fare chiarezza sul ruolo di Facebook e dei messaggi subliminali russi diffusi sulla piattaforma, i riflettori della Commissione europea sono puntati sulle promesse del social volte a impedire la diffusione di false notizie, impegni disattesi e forse irrealizzabili
di Alessandro Alongi e Maria Carla Bellomia
Archiviate le elezioni europee dello scorso 26 maggio, sul palcoscenico di Bruxelles il sipario non è ancora calato su un altro spettacolo, ovvero la lotta dichiarata da istituzioni e colossi del web alle fake news e all’hate speech. Più che di una tragedia, il recital messo in scena dalle big companies di Internet da ormai diversi mesi va sempre più somigliando ad una commedia propria del teatro dell’assurdo: molte promesse, proclami, piani e strategie per limitare la diffusione di false notizie ma, nella sostanza, pochi fatti.
La disinformazione online è particolarmente virale non soltanto quando si tratta di appuntamenti elettorali, ma ogni qualvolta un singolo fatto di rilevanza politica viaggia sul web, fenomeno forse figlio di una cultura che ha smarrito il senso della verità e piegato i fatti a interessi particolari, dietro una strategia ben precisa ad opera di gruppi organizzati in tal senso.
La diffusione di notizie false che dilagano sul web è infatti strettamente legata al crescente successo di Internet come mezzo di informazione – o, a seconda dei casi, di disinformazione – di massa, specie se paragonato ai media più tradizionali. È qui che le fake news affondano le radici, rappresentando il fenomeno un vero pericolo per le democrazie moderne basato sulla diffusione di notizie semplicistiche, fuorvianti e, in ultima battuta, sostanzialmente false.
Se l’aumento delle “bufale” non è di certo una novità nel campo dell’informazione, le caratteristiche proprie del mondo del web hanno fatto emergere – tra le questioni critiche di più urgente soluzione – il problema dell’assenza di meccanismi adeguati in grado di controllare la qualità dell’informazione e quindi di porre un freno al tracimare della disinformazione creata ad arte e messe in rete.
Per la loro stessa natura, tutta dinamica, i social network rappresentano, da questo punto di vista, degli incubatori senza precedenti per chi vuole, più o meno consapevolmente, condividere notizie false e messaggi d’odio dal facile rilancio online.
E così, in un panorama decentralizzato in cui la politica fatica a trovare un rimedio efficace, Facebook è tornata a parlare di contromisure al fenomeno delle fake news, approfittando dell’inaugurazione a Roma – proprio in questi giorni – di un nuovo laboratorio per le competenze digitali. Se la piattaforma social per eccellenza reclama per sé di “essere parte della soluzione”, al problema in realtà non sembra venir contrapposto nulla di nuovo. L’annuncio dei 30 mila controllori ingaggiati dal colosso del web, impiegati a scovare le notizie false e verificare gli annunci pubblicitari elettorali, era già stato proclamato ad inizio anno ma, nonostante i buoni propositi dell’azienda di Menlo Park, restano ancora tanti i dubbi della Commissione europea sulla reale efficacia di tali azioni.
D’altra parte, c’è da dire che anche a livello europeo, la ricetta contro la disinformazione online è rimasta per ora relegata ad una questione di principio: il Piano d’azione presentato da Bruxelles non è stato tradotto in misure legislative e il codice di autoregolamentazione sulle fake news non può essere sufficiente di per sè ad arrestare il fenomeno. Anche le conclusioni di qualche settimana fa del Consiglio europeo proprio su tale tema si possono riassumere in un appello dei vertici Ue ad un maggior sforzo da parte degli Stati membri di fronte al dilagare di tale fenomeno, senza di contro fornire una risposta istituzionale e concreta alle minacce al diritto all’informazione, valore fondante delle democrazie europee e della libera manifestazione delle opinioni.
«Spendiamo per la sicurezza miliardi di dollari l’anno. Abbiamo rafforzato la sicurezza, ma c’è poco che possiamo fare da soli» ha dichiarato il fondatore e patròn di Facebook Mark Zukerberg, qualche ora dopo l’annuncio, da parte del Presidente Donald Trump, di voler convocare il prossimo 11 luglio un vertice intergovernativo utile all’avvio di un dibattito sulle responsabilità delle piattaforme digitali, soprattutto in relazione alle incursioni sovietiche nella vita politica a stelle e strisce. Redde rationem in arrivo? «Non possiamo fermare le interferenze russe sulle elezioni da soli, non abbiamo gli strumenti. Il governo americano è quello che ha gli strumenti per fare pressione sulla Russia, non noi», ha aggiunto uno sconsolato Zukerberg, re nudo di fronte al suo specchio.