Accordo quasi fatto per l’Italia, ma dubbi e opportunità continuano a scontrarsi, nonostante Conte e Mattarella tentino di rasserenare gli animi. Roma sarebbe la prima del G7 a firmare. 1000 miliardi di dollari di investimenti sul piatto della bilancia da un lato, pericolo per asset strategici italiani e per dati personali dall’altro
L’accordo sulla cosiddetta “Via della seta” s’ha da fare! È questa la posizione alla quale è giunto il Governo Italia in questi giorni, dopo una serie di incontri e vertici tra il Premier Conte, i due Vice Di Maio e Salvini e i Ministri Tria e Moavero Milanesi.
Le opposizioni, da Forza Italia al Partito democratico, insorgono, preoccupate per una “invasione” cinese in Italia.
Il Premier Conte e il Capo dello Stato, Mattarella, hanno però, ancora una volta, rasserenato gli animi. Il Presidente del Consiglio ha spiegato che il memorandum italiano è l’unico che richiama diffusamente principi e regole europee, senza esporre gli asset strategici del Paese. Di analogo avviso l’inquilino del Colle che ha chiarito in questi giorni che il “memorandum d’intesa, che avvicinerebbe l’Italia alla Nuova Via della Seta cinese, non deve destare preoccupazione perché è “molto meno pregnante” di tanti accordi bilaterali già siglati da altri 13 Stati membri dell’Unione Europea (Bulgaria, Croazia, Grecia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Malta, Polonia, Portogallo, Slovenia e Slovacchia) con la Cina, già passati al vaglio della Commissione e dimostratisi in linea con il diritto europeo.
Un primato però l’Italia, qualora firmasse il memorandum, lo conserverebbe: il nostro Paese sarebbe il primo tra i membri del G7 a firmare questo accordo con la Cina, volto al “miglioramento dei suoi collegamenti commerciali con i paesi dell’Eurasia”.
Nel dettaglio si tratterebbe dello sviluppo di tutta una serie di infrastrutture di trasporto e di logistica, attraverso collegamenti via terra, soprattutto ferroviari, e via mare per un totale di sei grandi corridoi, che andrebbero a rafforzare i collegamenti tra la Cina l’Asia Centrale e l’Europa.
Il progetto, denominato in inglese “Belt and Road Initiative (BRI)” è nato in realtà 6 anni fa, nel 2013, sotto la spinta del Presidente cinese Xi Jinping, che ha messo sul piatto una cifra di tutto rispetto: 1.000 miliardi di dollari da destinare agli investimenti.
Oltre alle infrastrutture, gli accordi prevederebbero collaborazioni anche sul fronte energetico e su quello delle telecomunicazioni.
L’obiettivo del BRI infatti non è soltanto quello di investire su nuovi e migliori collegamenti terrestri e ferroviari, ma anche, e forse soprattutto, sul fronte delle tecnologie connettive per avere così una maggiore velocità nella comunicazione.
Fino ad ora sarebbero stati già finanziati oltre 150 progetti che hanno coinvolto circa 45 Paesi. Tra queste opere ci sono la linea ferroviaria Belgrado-Bucarest, quella Madrid-Yiwu e Londra-Yiwu, le centrali elettriche in Pakistan e Indonesia e l’hub di Duisburg, in Germania, dove stazionerebbero le merci trasportate settimanalmente con l’arrivo di 25 treni speciali di soli container
Sotto il punto di vista logistico, l’impegno maggiore è stato sostenuto dal gruppo di import/export dello Stato cinese Cosco, che ha già versato per l’uso del porto del Pireo in Grecia, 1 miliardo di euro nel 2016 e ha acquisito le società di gestione nel trasporto dei container per i porti spagnoli di Bilbao nell’ Oceano Atlantico e di Valencia sul mediterraneo nel 2017 di Zeebrugge (Belgio) nel 2018.
In Italia, per il momento, il gruppo cinese Cosco controlla il 40% del porto di Vado Ligure, utile terminale nel trasporto di container, mentre molto interesse desta Trieste.
In verità, i timori e i dubbi emersi in questi giorni a proposito di questo accordo sono stati soprattutto alimentati dai paventati investimenti sul fronte 2.0.
Perché?
Si calcola che dal 2018 al 2022 ci saranno 22 miliardi di nuovi oggetti collegati al Web a cui si aggiungono 621 milioni di nuovi utenti Internet e 605 milioni di nuove sottoscrizioni “mobile” che faranno crescere il traffico dati in media del 46% all’anno.
L’istituto di ricerca dell’Oro Group ha poi rilevato che nei primi nove mesi del 2018 i cinque leader di mercato nel 5G sono Huawei, Nokia, Ericsson, Cisco e Zte (anche questa cinese). Insieme rappresentano il 75% del mercato globale con Huawei che ne vale da sola appunto il 30%. In Italia, quest’ultima, ha investito 162 milioni di euro solo nel 2016, sviluppa la rete 5G a Milano e Bari e ha in pista una cinquantina di progetti.
Questo know-how digitale di Huawei, che dovrebbe tra l’altro rientrare nell’ambito del memorandum della sera preoccupa gli Stati Uniti ed altre nazioni (Nuova Zelanda, Australia e anche un operatore tlc del Regno Unito), soprattutto perché non vogliono che l’azienda si occupi della gestione delle reti dove viaggiano informazioni sensibili.
Detto in parole povere la Cina, tramite Huawei, avrebbe la possibilità di raccogliere una mole spaventosa di dati che darebbero una forza commerciale (e non solo) al Dragone e che appunto è vista con preoccupazione, anche dalla Lega di Matteo Salvini.
Alcuni dicono però che nell’accordo che verrà firmato non ci saranno riferimenti al 5G.
Ma questo si saprà (forse) solo quando arriverà in Italia Xi Jinping.