La crisi non guarda in faccia a nessuno ma, nessuno può offendersi, se diciamo che chi ha il posto fisso, meglio ancora nel pubblico impiego, dove gli stipendi non saranno certo da sogno ma la busta paga è sacra e inviolabile, ha certamente vissuto questo periodo con maggiore serenità e forse anche qualche indiscutibile vantaggio.
Non deve stupire, quindi, se a due anni dalla pandemia, con un Paese come il nostro che le novità le scopre quando nelle nazioni vicine già sono superate, quella dello smart working sia la frontiera del lavoro 2.0 alla quale oggi nessuno più vuole rinunciare, anche a costo, udite udite, di tagliarsi lo stipendio.
A fotografare la situazione italiana è un policy brief dal titolo “Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori”, realizzato dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche (INAPP) attraverso l’indagine Plus con un campione di oltre 45mila interviste (dai 18 ai 74 anni) nel periodo marzo-luglio 2021.
Prima della pandemia 2.458.210 occupati (pari all’11%) lavoravano da remoto. Nel 2021 i lavoratori agili sono saliti a 7.262.999 (e la quota sul totale degli occupati è balzata al 32,5%). Il 46% dei lavoratori vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile almeno un giorno e quasi 1 su 4 tre o più giorni a settimana.
Guardando alla distribuzione dei giorni lavorati da remoto nel 2021, si osserva che quasi il 50% era impegnato in modalità agile da 3 a 5 giorni a settimana e solo l’11,6% per un solo giorno.
Gran parte del lavoro da remoto si è realizzato su base fiduciaria: solo per il 16,5% è stato frutto di un accordo collettivo e per il 14,3% di un accordo individuale; per quasi il 37% dei lavoratori da remoto non c’è stata, invece, alcuna formalizzazione.
“Lo “smart working”, cioè quella profonda ristrutturazione dei processi produttivi alimentata dalle nuove tecnologie informatiche e digitali, contempla quote di attività lavorativa svolte al di fuori degli spazi fisici dell’azienda”, ha affermato il prof. Sebastiano Fadda, presidente Inapp. “Non sappiamo quale sia l’atteggiamento dei lavoratori verso tutti i molteplici aspetti che costituiscono la modalità dello “smart working”, ma sappiamo da questa indagine quale sia l’atteggiamento dei lavoratori nei confronti del lavoro “da remoto” così come è andato configurandosi sotto la frustata della pandemia”.
“Nel complesso la valutazione dei lavoratori è positiva, anche se si manifestano alcune criticità in relazione ad alcuni aspetti, come ad esempio il problema della disconnessione e dei costi delle utenze domestiche. Da ciò si desume che esiste una base per passare dal semplice lavoro da remoto emergenziale a nuovi modelli di organizzazione del lavoro associati a innovative reingegnerizzazioni dei processi produttivi, ma che bisogna adoperarsi per risolvere le criticità”.
In merito al tema del rischio di connessione continua il settore privato appare più virtuoso, con il 65% dei lavoratori del comparto che dichiara di poter scegliere in modo autonomo quando disconnettersi contro il 50,1% di quelli del pubblico.
Per quanto attiene invece alla connessione any-time, a fronte di un dato complessivo del 32,8%, nel pubblico la quota scende al 26,9%, mentre nel privato sale al 34,5%. In merito alla possibilità di fare brevi pause, una quota particolarmente elevata (78,2%) non manifesta criticità, ma oltre il 49% dichiara di potersi disconnettere solo per la pausa pranzo.
Il lavoro agile, seppur realizzato in contesti organizzativi non preparati e con infrastrutture tecnologiche spesso inadeguate, è stata un’esperienza positiva. Il 55% dei lavoratori esprime un giudizio positivo sull’esperienza complessiva di lavoro da remoto, ma su alcune specifiche questioni le valutazioni sembrano evidenziare criticità: quasi il 64% ritiene che il lavoro da remoto generi isolamento e circa il 60% che non aiuti nei rapporti con i colleghi; in più, per oltre il 60% risulta problematico l’aumento dei costi delle utenze domestiche.
Al contrario è decisamente positiva la valutazione sulla libertà di organizzare il lavoro e gestire gli impegni familiari. Oggi la metà delle professioni qualificate può erogare oltre il 50% della prestazione da remoto a fronte di un decimo delle professioni non qualificate.
Questa segmentazione è frutto della natura della prestazione e di una cultura organizzativa che deve essere aggiornata alla luce dell’esperienza del lavoro agile.
“E’ evidente – ha proseguito Fadda – che possibilità e modalità di lavoro da remoto variano a seconda della configurazione che lo “smart working” può assumere nelle aziende di diversa dimensione, di diverso settore e di diversa “intensità tecnologica”; di conseguenza non ci possono essere modalità o percentuali fissate a priori. Occorre un quadro di regole-base e poi flessibilità per definire attraverso la contrattazione le modalità che meglio garantiscono la produttività delle aziende e il benessere dei lavoratori”.
Infine, qualora il lavoro agile entrasse a regime, si aprirebbero nuove prospettive sul futuro delle città e dei territori. Dallo studio emerge, infatti, che oltre 1/3 degli occupati si sposterebbe in un piccolo centro; 4 persone su 10 invece si trasferirebbero in un luogo isolato a contatto con la natura.
Inoltre, pur di lavorare da remoto 1 lavoratore su 5 accetterebbe una eventuale penalizzazione nella retribuzione, segno che un ipotetico miglioramento nella qualità della vita presenta un valore aldilà di quello economico.