Esistono abitudini così diffuse e condivise dall’essere fuori dal tempo, capaci di non risentire di mode e altri fattori esterni e resistere a ogni intemperia, metaforica o letterale. Degli evergreen, insomma, che neanche una pandemia che attanaglia il mondo da quasi due anni è in grado di scalfire.
Nel Belpaese, il classico dei classici di questo novero di costumanze, prima ancora che di consuetudini, è quello che si può definire “assalto alla diligenza” sulla Legge di Bilancio.
Intervenire in gamba tesa sulla cara e vecchia manovra finanziaria, la legge più importante dello Stato, è più di una tentazione irresistibile, è un vizio radicato e inestirpabile.
Anche se alla guida del Paese c’è il Presidente del Consiglio più autorevole mai avuto, anche se, è comunque il caso di ricordare, nel corso di un’emergenza globale le classi dirigenti dovrebbero spostare il baricentro sul fare a dispetto del cincischiare.
E invece la finanziaria si è caricata di 6.290 emendamenti, non un record ma ci va vicino, e a poco sembra servire la buona volontà di Mario Draghi di incontrare uno a uno i vertici dei partiti.
Eppure Daniele Franco, titolare del MEF voluto da Draghi, ha confezionato una manovra asciutta con un solo obiettivo principe: ridurre la pressione fiscale sul ceto medio, dando maggiore potere d’acquisto alle famiglie e dunque ossigeno ai consumi vitali, nel solco di una ripresa che c’è, è innegabile ma va accompagnata per irrobustirsi e diventare strutturale.
Perché la domanda interna è mobile, soggetta a innumerevoli variabili e va tutelata ancor prima che stimolata.
Principio lineare sul quale invece pare esserci molta sordità. Gli emendamenti, in ordine sparso, hanno dato sfogo al consueto estro italico che le forze partitiche sanno così bene interpretare: si è proposta una decontribuzione per le neomamme che tornano a lavoro; una no tax area per gli under 30 ma anche uno stop alla tassa di occupazione del suolo pubblico per bar e ambulanti.
Poi ci sono le battaglie di primo piano: il nodo Reddito di Cittadinanza, residuato del M5S della prima ora; la flat tax che la Lega vorrebbe fino a 100mila euro con un’aliquota al 20% e una grandissima convergenza complessiva sul tema del caro bollette.
Non avendo forzieri nascosti e per evitare di lavorare in deficit e appesantire il debito, il ministro Franco ha provato a tirare dritto, dovendo già affrontare una scelta importante per distribuire il grosso delle risorse: lavorare sull’Irpef per dare fiducia prima ancora che disponibilità economica alle famiglie, o intervenire massicciamente sull’Irap per dare fiato alle imprese e magari incentivare la macchina delle assunzioni?
L’uomo dei numeri di Draghi ha optato per la prima, probabilmente perché i cittadini sono tutto: consumatori, lavoratori e talvolta imprenditori, facendo storcere il naso alle rappresentanze delle imprese, come da copione.
Ma sulla rimodulazione dell’Irpef, alla quale son destinati circa 7miliardi di euro e che prevede un intervento su aliquote e scaglioni – una sorta di antipasto della agognata riforma fiscale – non sono stati gli imprenditori e nemmeno i politici a dare il meglio del meglio; sono state le organizzazioni sindacali. CGIL, CISL e UIL hanno bocciato in toto la manovra che, a detta loro, non darebbe benefici a pensionati e lavoratori a basso reddito.
Ecco, ora a Landini&Company farebbero bene dare un’occhiata, anche fugace, alla puntuale indagine di Itinerari Previdenziali, centro studi guidato da Alberto Brambilla, in merito alla redistribuzione dell’Irpef e il peso del gettito dei contribuenti italiani. Dallo studio emerge chiaramente che il 57% dei connazionali, circa 26milioni di persone, ovvero 14milioni di famiglie dichiarano di vivere con meno di 10mila euro lordi annui.
Nel dettaglio, 10milioni di contribuenti dichiarano da 0 a 7.500 euro, per una media aritmetica di 3.750 euro lordi annui, pari a circa 312 euro al mese. Meno di una pensione minima per un nucleo familiare di 1,44 persone.
Poi ci sono altri 8milioni di sedicenti contribuenti che dichiarano poco più di 11mila euro lordi, circa 900 euro al mese. Si arriva a un totale di 18milioni, circa il 43% dei dichiaranti, che versano poco più di 4miliardi al fisco, ossia il 2,3% di tutta l’Irpef ma costano alle casse dello Stato, solo in materia di sanità, circa 50miliardi.
Tra questa compagine di virtuosi ci sono anche più di 6milioni di pensionati che, nel corso della loro vita lavorativa devono aver fatto davvero la fame o, forse, hanno dichiarato briciole all’erario pensando bene di lavorare in nero.
Un popolo di furbetti, per usare un vezzeggiativo odioso ma edulcorato, che ha agito a scapito della collettività, esigua a dire il vero, di quei 5,5milioni di contribuenti che dichiarano dai 35mila euro lordi in su, sono meno del 10% della popolazione ma pagano il 58,8% di tutta l’Irpef.
Forse è a queste persone, che lavorano e dichiarano illudendosi di vivere in un perimetro di regole condivise, ma che non passano mai davanti agli occhi dei sindacati e hanno scarso peso politico, che ha rivolto il pensiero il titolare del MEF, credendo ingenuamente, che in una fase di ricostruzione del Paese e dell’economia fossero proprio gli onesti meritevoli di essere premiati.
Forze politiche e parti sociali pare preferiscano invece il mantenimento dello status quo, il restare ben ancorati alle proprie posizioni, anche quando queste sono ridicole se non addirittura dannose per il Paese.
Franco e Draghi procederanno nella loro rotta, a quanto pare ostinata e contraria finché vorranno, finché potranno, pensando che tra il dire e il fare la seconda sia sempre la sola opzione possibile.