L’avvicinamento tra Trump e Putin farà dell’Europa un naturale punto di scontro proprio nel momento più delicato della vita dell’Unione europea
di LabParlamento
Come a chiudere definitivamente un’era ormai lontana i discorsi di George W. Bush e Barack Obama al funerale di John McCain hanno definitivamente solcato la discontinuità tra l’America politica di ieri e di oggi. Donald Trump, si sa, è e rimarrà una scheggia impazzita all’interno di un sistema secolare democratico che – anche nei momenti più drammatici, come la guerra di secessione durante la presidenza Lincoln, la morte di Kennedy – la battaglia dei diritti civili e la guerra del Vietnam con Johnson fino all’undici settembre con lo stesso Bush, ha sempre dimostrato in modo granitico la condivisione dei propri valori fondanti al di là delle appartenenze politiche. Ma la malattia e la morte di McCain, al di là della vicenda umana, ha dimostrato che anche negli USA il conflitto tra vecchia e nuova politica è più lacerante che mai.
Checché se ne dica, nonostante il caos che regna all’interno del Partito democratico, anche nel GOP gli equilibri sono saltati completamente. McCain, storico esponente conservatore del profondo sud, è stato tra gli ultimi della vecchia guardia a presidiare quella condivisione di intenti che dal razzismo alla politica estera non è mai stata negoziabile, né in campagna elettorale né durante il mandato presidenziale, e la vittoria di Trump, a scapito di storici e popolari volti noti come Jeb Bush e Rudy Giuliani, ha segnato il punto di non ritorno per quegli schemi che dai tempi di Roosevelt sembravano immutabili e cristallizzati.
La scalata di un “esterno” come Trump, che si è imposto alle primarie repubblicane grazie ad un indubbio carisma personale e contro i fortissimi ostacoli messi in campo dal vecchio apparato, ha determinato negli Usa come in Europa l’implosione di quella serie di certezze politiche che hanno governato l’occidente dopo la seconda guerra mondiale. La totale imprevedibilità di un Presidente che di fatto non risponde a nessuno se non al suo elettorato ha dimostrato come il tarlo che oggi corrode dall’interno l’idea stesso di partito è un punto di non ritorno in grado di determinare l’eliminazione totale di quel filtro che, fino a poco tempo fa, esercitava lo schieramento politico d’appartenenza. Se la nomination di Trump per la rielezione appare oggi scontata è solo perché anche la più flebile opposizione interna appare totalmente incapace di uscire dall’angolo. Non è bastato, insomma, la storia e il prestigio personale, come fu per McCain né i poteri fortissimi rappresentati dal clan Bush, che pure riuscì a strappare la roccaforte del Texas ai democratici negli anni ’70, per fermare il mutamento genetico che il Partito repubblicano ha imboccato. E se davvero sarà l’ex repubblicano Bloomberg a sfidare Trump, a sua volta già simpatizzante ed elettore democratico, l’assoluta peculiarità di questo quadro sarà rappresentata in modo plastico.
La dimostrazione più evidente della nuova fase è il costante abbandono di quel quadro geopolitico che la stessa America, nel suo esclusivo interesse, aveva contribuito a creare per un avvicinamento alla Russia la quale ha nell’eventuale disintegrazione del quadro comunitario europeo una invece convenienza diretta. Il progressivo disimpegno militare americano in luogo di una più conveniente “guerra” di tipo diplomatico e dialettico, anche via tweet, sta via via allontanando gli Stati Uniti in modo irreversibile dal quadro atlantico, relegando la già debole Europa in ciò che Napoleone avrebbe chiamato zona cuscinetto.
La contrapposizione tra Usa e Russia, dai dazi al gas, avrà infatti il suo terreno di scontro proprio in quella Europa dove i quadri politici tradizionali stanno implodendo. Come nei tempi più bui della guerra fredda le due superpotenze, stavolta in modo chiaro e pubblico, scommettono e tifano per il crollo dell’Europa che, pur tra mille contraddizioni, rappresenta ancora un temibile competitor politico ed economico in grado di ostacolare i sogni di grandezza dei due imperi. Insomma laddove nemmeno Nixon e Breznev avevano osato, il tempo per spartirsi nelle rispettive sfere d’influenza le macerie di un’Europa morente appare maturo.
Per questo, con un Regno Unito ormai fuori dall’Unione, il prossimo appuntamento elettorale delle europee ci dirà se gli obiettivi di Usa e Russia avranno o meno probabilità di successo. Il rischio di ritorno ad una Europa delle nazioni, che in politica estera viaggi in modo disarmonico, è infatti l’anticamera di una crisi che, a meno di clamorose novità politiche interne, consegnerà ciò che rimane dell’UE alle ambizioni americane e russe, pronte di nuovo a competersi il palcoscenico mondiale nell’era delle post-ideologie.