Sembra passato tanto tempo, eppure solo due settimane fa il mondo
occidentale si chiedeva sgomento se la più grande democrazia del
pianeta avrebbe retto di fronte ad un tentativo di insurrezione armata
guidato dal suo Presidente in carica, una specie di scenario da film di
fantascienza, di quelli così inverosimili da risultare grotteschi.
In quei giorni, del resto succedevano tante cose fuori dall’ordinario:
dall’assalto al Campidoglio USA da parte di personaggi vestiti in modo
improbabile all’uccisione davanti alle telecamere di una donna
appartenente al gruppo degli assalitori da parte delle forze dell’ordine con
un colpo di pistola in pieno petto, quasi a bruciapelo.
Un’immagine, quest’ultima, assurda, terribile, passata quasi sotto silenzio
in quel caos e sovrastata dalle scene più ridanciane e tranquillizzanti dei
rivoluzionari de noantri felici e appagati dall’ebbrezza di mettere i piedi
sulle scrivanie dei potenti.
Questa overdose di notizie e immagini scioccanti ha così fatto finire in
secondo piano uno degli eventi più traumatici accaduti al mondo
dell’informazione da quando esiste la sua versione digitale: la decisione
delle società che gestiscono i più importanti social mondiali, da Twitter a
Facebook, di sospendere e poi bannare Donald Trump, impedendogli di
pubblicare post e tweet.
Decisione che si immagina sofferta e in un certo modo obbligata dallo
stesso Presidente uscente degli USA, che ha sconsideratamente
utilizzato i social per montare una campagna di odio e di delegittimazione
dell’avversario che lo aveva battuto nella sfida del voto, sobillando
migliaia di americani allo scopo (poi fallito) di invalidare gli esiti delle
elezioni.
Nel momento culminante di questa vera e propria campagna di
delegittimazione, diretta responsabile del tentativo di insurrezione armata
costata la vita a dei cittadini americani e di una ferita, altrettanto grave,
alla fiducia di milioni di persone nella tenuta del sistema democratico
occidentale, Twitter e Facebook hanno dunque deciso di togliere la voce
ad uno dei loro iscritti più illustri, per impedirgli di fare ulteriori danni.
L’effetto immediato è stato il ridimensionamento drastico dell’eco delle
invettive di Trump, privato improvvisamente della platea naturale da cui
condurre le sue “operazioni di guerra”.
La prima, naturale reazione in chiunque assisteva con sgomento al
crescendo degli attacchi di Trump al suo Paese è stata di sollievo, come
se fossero arrivati i genitori di un bambino particolarmente molesto che
stava dando parecchio fastidio a tutti e gli avessero intimato di smetterla.
Insieme a questo pensiero però, nella mente di molti se ne affacciava un
altro, dal nome molto meno tranquillizzante di censura.
E’ giusto intervenire per cancellare i post e i tweet illeciti o costituenti
reato ed eventualmente bannarne l’autore o si tratta di una limitazione alla
sacra libertà di manifestazione del pensiero?
La questione della continenza delle espressioni del pensiero negli organi
di informazione non è certo una novità ed è disciplinata da leggi chiare.
Ma nel caso di specie siamo di fronte a due differenze sostanziali:
a) Le informazioni passano sempre più spesso attraverso i cosiddetti
“social”, che non sono soggetti alla normativa sulla stampa;
b) Le società di gestione dei predetti social non hanno sede nel nostro
Paese e rispondono dunque alle norme della nazione in cui sono nate,
anche se gli effetti del loro agire si diffondono ovunque.
Facebook, Twitter e gli altri enti simili sono associazioni private: vi si entra tramite domanda,
come in un club, e aderendo alle regole che il gestore ha elaborato in piena autonomia.
E’ pertanto logico che il medesimo gestore abbia il potere di estromettere
dal “club” chi non si attiene alle regole cui ha aderito, così come appare
perfettamente naturale riconoscere al padrone di casa il diritto di cacciare
l’ospite che butti cicche per terra o insolentisca gli altri con il proprio
linguaggio o comportamento.
A ciò si deve aggiungere che, proprio per l’enorme potere di
condizionamento che i social hanno assunto nella nostro vita, è
impensabile che chi li gestisce possa essere sollevato da responsabilità e
non abbia un obbligo di vigilanza affinchè questo potere non sia usato a
scopi illeciti.
Tutto bello, naturale e corretto… tranne il fatto che il padrone della casa di
cui si parla possiede la chiave per accedere alle informazioni di buona
parte del pianeta, e con il suo intervento rischia di influenzare, nel bene e
nel male, l’esito delle elezioni o ogni altro momento di espressione della
democrazia.
Quale sarebbe stata la nostra reazione se ad essere colpito
dall’espulsione dal più grande social cinese fosse stato il rappresentante
dell’opposizione al partito dominante del gigante asiatico? Non avremmo tutti preso
questo intervento come un sopruso, un attacco alla democrazia?
La differenza, nel caso di Trump, è solo che a noi sembra giusto quello
che ai gestori di Twitter e Facebook è sembrato giusto?
Stiamo delegando ai controllori dei social il potere di decidere chi e come
deve parlare e diffondere informazioni?
Stupisce la sostanziale indifferenza con cui molti hanno semplicemente
preso atto, più o meno coscientemente, di non avere praticamente alcun
controllo né alcuna arma di difesa contro eventuali abusi di un potere che
si prospetta talmente pervasivo da non avere precedenti (o forse si…).
Chi controlla le informazioni controlla un paese. E oggi questo potere
sembra essere transitato, attraverso la trasformazione dei social in
pseudo- organi di informazione, nelle mani di poche persone, per di più
ignote (io stesso sto usando le locuzioni “gestori di Twitter o di Facebook”
perché ignoro, come tutti, chi materialmente detenga questo potere, come
sia stato scelto e da chi).
A proposito di film distopici…. Ci hanno silenziosamente privato del
sistema di pesi e contrappesi su cui poggiano le moderne democrazie?
E’, peraltro, inutile confidare nella speranza che i controllori dei social
faranno sempre cose giuste: qualcuno ha capito perché, ad esempio, su
Facebook e Instagram non è consentito mostrare il seno ma è possibile
mostrare il lato B, mentre nelle spiagge della maggior parte dei paesi del
mondo avviene il contrario?
L’esempio può sembrare banale, ma rende l’idea di quanto chi detta le
regole del club porti nello stesso la propria visione soggettiva delle cose e,
magari involontariamente, finisca per imporla agli altri.
Non esistendo filtri all’accesso alla carica (quelle che un tempo
assicuravano a chi controlla un paese la legittimità del proprio agire e si
chiamavano elezioni) né controlli al suo operato i titolari delle
informazioni, il bene più importante del nostro tempo, possono dunque
dare libero sfogo alla sua personale visione del mondo.
Verrebbe da dire che la prospettiva appare altrettanto inquietante di quella
di quella di un leader di governo che non accetta l’esito delle elezioni a lui
avverse…. Ma forse non siamo ancora a questo punto.
Appare però indifferibile un sistema di regole che, partendo dal
riconoscimento di una parificazione tra social e organi di informazione
ormai nella realtà delle cose, protegga da eventuali abusi e violazioni di
legge chi controlla un settore così delicato e nevralgico della nostra
società da non poter essere più considerato un club ad inviti ma un vero e
proprio servizio essenziale.