Qualche tempo fa, vedendo un documentario di Rai5 su Jackson Pollock, ho scoperto una cosa che ignoravo e che ha scombussolato parecchio il mio modo di vedere le cose e di concepire l’arte figurativa: quadri, fotografie, film. Prima di parlarvi di quell’episodio, però, vi devo rapidamente spiegare chi è stato Jackson Pollock, un nome piuttosto noto per gli appassionati d’arte. Molto meno noto per tutti gli altri.
Pollock è stato l’artista che, negli anni ’40 e ‘50, ha creato l’arte informale, attraverso il cosiddetto “dripping”, cioè lo sgocciolamento casuale del colore sulla tela, un tipo di azione artistica che è anche il simbolo dell’assoluta libertà dell’arte, un’arte intesa come azione pura, colore puro, non legata a nessun condizionamento, a nessun pensiero e a nessuna forma.
Insomma, un giorno mi guardo su Rai5 un bel documentario su questo pittore e scopro che alcune mostre di Jackson Pollock – cioè la quintessenza dell’artista senza leggi e senza padroni, tutto genio e sregolatezza – sono state finanziate dalla CIA. Dico la CIA, eh! Cioè i servizi segreti americani. Mica bau bau e micio micio. Per me è stato come svegliarmi di botto da un bel sogno, come scoprire che Babbo Natale non esiste, come diventare adulto all’improvviso. Ma come? La CIA? Ma l’arte del novecento non era opposizione al potere costituito? L’artista non era un essere libero, che non seguiva nient’altro che il proprio genio? E allora la CIA che c’entra? Non è esattamente l’opposto di tutto questo? Non ci volevo credere.
Perciò, ho fatto qualche piccola ricerca e ho scoperto che, effettivamente sì, quello che diceva il documentario sembrerebbe vero: l’arte americana del secondo dopoguerra, da Pollock, a Rothko, a Warhol, dall’Action painting, alla Pop Art, all’Arte concettuale, ha ricevuto contributi non solo da parte del governo statunitense, ma anche da parte dei servizi segreti americani.
Contributi di cui, spesso, gli artisti non erano direttamente consapevoli, ma che comunque arrivavano, in forma indiretta, attraverso fondazioni, mecenati, gallerie d’arte, contribuendo parecchio al successo mondiale di quegli artisti. Questo accadeva perché, in quel momento storico e politico, serviva dimostrare a tutto il mondo che l’occidente era molto più libero e molto più bello dei brutti e cattivi paesi dell’area sovietica, retrogradi e condizionati, nella loro produzione artistica, dalle rigide regole del realismo socialista.
Insomma, se l’arte sovietica era palesemente fatta a scopo di propaganda, quella del mondo occidentale doveva apparire come libertà assoluta, come pura creatività artistica. Questo si voleva dimostrare e far credere. Per dare l’idea di un mondo libero da condizionamenti politici. E, dunque, il “sistema” politico finanziava gli artisti che apparivano più liberi e più “anti sistema”. Praticamente un paradosso. Un paradosso solo in apparenza, però. Perché un conto è fare apparire che una cosa esista, altro conto è che questa cosa esista davvero. Una libertà artistica e di pensiero che vive grazie ai finanziamenti di un governo, o, peggio, dei servizi segreti, è, ovviamente, una contraddizione in termini. Cioè, non è affatto libertà.
Inoltre, una libertà che serve a vincere la sfida con un nemico, non può che finire, nella sua forma e nella sua sostanza, il giorno in cui quel nemico non ci sarà più. Dunque, la presunta libertà artistica e di pensiero dell’occidente è stata pura forma, pura finzione, finanziata a fini propagandistici e per il tempo strettamente necessario in cui quel tipo di propaganda risultava utile. Se il capolavoro del diavolo è far credere che non esista, il capolavoro della propaganda è stato far credere di essere libertà di espressione. Questo è accaduto alla perfezione con le opere di Pollock e con l’arte del secondo novecento.
Grazie a un documentario Rai5, però, ho scoperto che i quadri informali di Pollock, o le opere di Andy Warhol, erano – nei fatti, anche se non nell’apparenza, e spesso all’insaputa degli stessi autori – pura propaganda politica, fatta per esaltare il potere americano, né più né meno come una pala d’altare del sedicesimo secolo serviva a glorificare la Chiesa e il potere dei Papi, o come la colonna di Traiano serviva alla gloria di Roma, o come il Napoleone di David serviva al potere di Bonaparte, o come un murale sovietico raffigurante Marx e Lenin serviva alle magnifiche sorti e progressive del socialismo.
L’arte, perlomeno quella che ottiene successo mediatico planetario, è da sempre – e sempre sarà – anche e soprattutto propaganda politica, esaltazione dei valori del potere in quel momento dominante. Se questo è vero per un quadro, figuriamoci per una fotografia, che ha anche la parvenza di sembrare una cosa “autentica”, di raffigurare l’effettiva realtà dei fatti. È stato così per la famosa foto del miliziano morente scattata da Robert Capa durante la guerra civile spagnola, o per la bandiera sovietica issata dai soldati russi su una Berlino distrutta dopo la disfatta di Hitler, o per il cormorano ricoperto di petrolio durante la guerra del Kuwait.
Tutte immagini reali, apparentemente casuali, scattate da bravi reporter, ma che poi si è scoperto essere state ben studiate, fatte a freddo, con accurate ricostruzioni, analizzando a lungo l’inquadratura e i dettagli, allo scopo di esaltare al meglio l’effetto propagandistico di quelle immagini. Mi è ritornato in mente tutto ciò, in questi giorni, quando ho visto la foto della bimba-soldato, quella bella foto di una ragazza bionda, col fucile automatico e il lecca lecca, che tanto successo sta ottenendo sui giornali e sui social. Perché, in quella bambina in armi, che pare presentare uno spaccato della guerra attualmente in corso in Ucraina, c’è un po’ del miliziano di Robert Capa e c’è anche il cormorano ricoperto di petrolio.
Quella foto della bimba-soldato, casuale o costruita che sia, infatti, non racconta affatto la realtà della guerra. Non più di quanto il Napoleone a cavallo di David non raccontasse la realtà delle guerre napoleoniche. Il quadro di David, semmai, raccontava l’ideale di un Napoleone assolutamente perfetto, quasi come un eroe mitologico: un condottiero bello e invincibile come un Dio, così come voleva la propaganda politica di quel momento.
Anche la Lolita ucraina col Chupa Chups e il fucile è molto bella. Praticamente perfetta. Proprio per questo non ci racconta di nessuna realtà. Ci racconta un’idea, ci mostra un ideale, quello per cui si suggerisce che imbracciare armi è bello, godurioso, semplice e privo di conseguenze, proprio come succhiare un lecca lecca. Un gesto che pare un gioco da ragazzi e un piacere. Un piacere quasi erotico, così come quasi erotica è quella ragazzina, dispensatrice di bellezza e di morte. Proprio come Lolita, la protagonista del romanzo di Nabokov.
Certo, proprio come per Lolita, o come per il Napoleone a cavallo, o come per gli eroi di Olimpia ritratti da Leni Riefenstahl, la bimba ucraina è così tanto bella e così perfettamente in posa, in un quadro d’insieme meravigliosamente studiato, da suscitare ammirazione ma non emulazione, stupore ma non empatia umana. E questo è il limite che ha spesso la propaganda. Soprattutto quando è ben fatta. Perché, sotto sotto, tutti noi lo sappiamo bene che la realtà non è perfetta e bella come un quadro, come una foto, come un romanzo, come un film. Sotto sotto lo sappiamo tutti. Per fortuna.