Secondo l’analisi realizzata dal DataLab Ispi, il conflitto in Ucraina, combinata con un aumento degli sbarchi sulle coste italiane, rischia di paralizzare il sistema dell’accoglienza in Italia. “In Italia sono arrivati circa 105 mila profughi ucraini in due mesi, una cifra che non abbiamo mai vista”, ha detto all’AGI il curatore della ricerca Matteo Villa. A questo afflusso imponente va aggiunto l’aumento degli sbarchi che, secondo le stime degli esperti, potrebbero raggiungere anche a 100 mila.
La situazione rischia davvero di diventare di nuovo ingestibile? E cosa c’entra la crisi in Ucraina? Per un approfondimento LabParlamento si è rivolto a Nicola De Felice, Senior Fellow del Centro Studi Machiavelli. Ammiraglio di divisione (ris.), già comandante di cacciatorpediniere e fregate, ha svolto importanti incarichi diplomatici, finanziari, tecnici e strategici per gli Stati Maggiori della Difesa e della Marina Militare, sia in Patria sia all’estero, in mare e a terra, perseguendo l’applicazione di capacità tese a rendere efficace la politica di difesa e di sicurezza italiana.
Ammiraglio, nel Suo blog Lei ha recentemente scritto nero su bianco che “il conflitto in Ucraina potrebbe provocare uno tsunami di clandestini sulle coste italiane”. Potrebbe spiegare il perché?
Il traffico di navi mercantile nello stretto dei Dardanelli è di 55 mila unità all’anno, quattro volte di più dei canali di Suez e di Panama. Il Bosforo costituisce la principale rotta per il trasporto di petrolio dal Caucaso alle nazioni dell’Europa e dell’Asia. Il 65% dell’export russo passa attraverso il Bosforo e, oltre al petrolio, passa anche il grano che dai mercati di Russia, Ucraina e Kazakistan copre il 25% del fabbisogno mondiale. Inoltre, ghisa e semilavorati siderurgici passano dal Mar Nero per il 10% del fabbisogno europeo. Con il blocco del traffico mercantile in quell’area, la crisi alimentare dovuta alla mancata importazione di grano e la crisi energetica per la carenza di petrolio raffinato stanno scatenando una crisi economica senza precedenti nei Paesi di origine e di transito di flussi migratori.
È ben noto che nessuno lascia casa se sta bene a casa sua. Quali Paesi rappresentano il maggior rischio da questo punto di vista? Che tipo di problemi stanno affrontando in questo momento?
Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno, le 3 etnie più numerose che sono sbarcate in Italia nel 2022 sono rispettivamente quella egiziana (20%), quella bengalese (18%) e quella tunisina (11%). Ora, l’Egitto ha 104 milioni di abitanti mentre il Bangladesh, nazione più densamente popolata al mondo, ne ha 166 milioni. La Tunisia con 12 milioni di abitanti ha raddoppiato la sua popolazione nelle ultime tre decadi ed è la parte africana più vicina all’Italia. Il recente aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti incrementa i costi di servizio e il debito pubblico di queste nazioni, indebitati per miliardi di dollari per combattere il Covid.
Con il perdurare della cruda realtà del conflitto in Ucraina, la crisi alimentare ed energetica sembra dover durare mesi e questo cocktail di rischi ha già spinto diverse economie emergenti a dichiarare default economico. Egitto, Tunisia e Bangladesh sono in testa alla classifica dei mercati emergenti esposti al crollo finanziario a causa della guerra.
I governi di queste nazioni hanno aumentato i propri debiti per attutire l’impatto della pandemia e della guerra; ora il debito è detenuto da banche pronte a speculare sul rischio e a ritirare i prestiti a causa del rallentamento delle economie e del valore dei titoli di Stato. Le banche centrali di Egitto e Tunisia stanno alzando i tassi di interesse per tentare di controllare i prezzi, ma è bene ricordare che solo un decennio fa l’aumento dei prezzi dei generi alimentari contribuì a innescare la Primavera Araba e i cambi di regime.
In Bangladesh il governo sta tagliando l’elettricità alle famiglie e all’industria perché non può più acquistare carbone e gas. Il governo tunisino, a corto di liquidità, ha aumentato i prezzi del carburante 4 volte nell’ultimo anno e il turismo è sparito. I venditori della medina scherzano sul fatto che la cocaina si compra più facilmente della farina. L’Egitto importa l’85% del suo grano e il 73% del suo olio di girasole dalle due nazioni ora in guerra. Il bilancio egiziano di circa 160 miliardi di dollari è gravato da un debito pubblico che raggiunge il 90% del Pil. La scomparsa delle forniture russe ed ucraine ha colpito duramente la sterlina egiziana che è stata svalutata di oltre il 15% e il presidente El-Sisi ha esortato il popolo ad accontentarsi di pasti meno ricchi nel rompere il digiuno del Ramadan.
La possibile recessione negli Stati Uniti e in Europa e la nuova ondata in Cina potrebbero ulteriormente aggravare la situazione e “gettare benzina sul fuoco”?
Altri problemi sono in arrivo come il recente focolaio Covid che sta bloccando i porti della Cina, soprattutto Shanghai, quindi le attività di esportazione via mare verso il mondo intero. Gli indicatori di mercato che in passato hanno predetto una contrazione economica stanno lampeggiando minacciosamente su entrambe le sponde dell’Atlantico. È un segnale che la combinazione di pandemia, inflazione e guerra potrebbe portare ad una recessione in due dei tre grandi blocchi economici del pianeta, cioè Europa e Stati Uniti.
Lo scenario che va a delinearsi nelle prossime settimane è un vero a proprio congelamento delle forniture globali. Inoltre, è probabile che l’aumento degli oneri finanziari diventino più pressanti man mano che la Fed, per combattere l’inflazione interna, alza i tassi di interesse sui Treasury statunitensi, cioè le obbligazioni governative considerate beni rifugio per molti Stati in via di sviluppo.
Per il FMI la guerra ucraina è come “un’onda sismica che impatta sull’economia globale” e la Banca Mondiale ha già tagliato le previsioni di crescita globale. Molte delle nazioni con economia emergente stanno pensando di svalutare ulteriormente la propria valuta e molto presto sospenderanno il pagamento del debito estero, decidendo di utilizzare ciò che resta delle proprie riserve per coprire le importazioni di cibo ed energia piuttosto che pagare gli investitori.
Dal 2000 al 2013 in Italia in media sbarcavano 20 mila persone all’anno. Dopo le primavere arabe, negli anni 2014-15-16 l’Italia è arrivata a 150-180 mila. Poi nel 2019 gli sbarchi sono crollati a 10 mila persone. E come aumenteranno gli arrivi nel 2022? Quali sono le Sue previsioni?
Nel 2019 in Italia c’era un Governo che ha combattuto seriamente l’immigrazione clandestina riuscendo ad attutire – nel rispetto del diritto marittimo internazionale – il flusso migratorio dall’Africa e dai Balcani. Ora, le turbolenze innescate dall’aumento dei prezzi di cibo ed energia stanno attanagliando l’Egitto, il Bangladesh e la Tunisia, ai primi posti della classifica per gli sbarchi in Italia con 12.000 clandestini nel 2022, il triplo rispetto allo stesso periodo del 2020. Il tutto rischia di trasformarsi in uno tsunami apocalittico di sbarchi, grazie anche all’attrattiva presenza (PULL FACTOR) delle navi ONG tedesche, norvegesi e spagnole a ridosso delle coste libiche.
Se il Governo italiano insiste nella politica dei porti aperti e a tollerare le velleità radical chic dei partiti di sinistra al governo negli Stati di Bandiera con il loro appoggio alle navi ONG, mi aspetto flussi migratori dall’Africa simili a quelli del 2015. Non dimentichiamo poi l’ambigua politica estera della Turchia presente in Libia.
Secondo un recente studio dell’ISPI, a causa dei profughi che arrivano dall’Ucraina il sistema di accoglienza rischia il tilt. Condivide questa preoccupazione?
Dall’inizio del conflitto in Ucraina più di centomila persone hanno fatto ingresso in Italia. Lo stato del sistema di accoglienza, tuttavia, risulta in gran parte impreparato ad accogliere in maniera dignitosa le persone in fuga da un conflitto. Un sistema poco trasparente e pensato per l’emergenza che non si è mai affrancato da questa logica e che, negli anni scorsi, ha perso l’occasione per riformarsi.
La nuova ondata migratoria dall’Ucraina rischia di presentare gli stessi problemi di sempre. Altro che umanità e assistenza: l’accoglienza può trasformarsi in occasioni di business da parte dei “caronti” sciacalli e dei centri di accoglienza.
Da un militare cosa pensa dell’invio degli armi in Ucraina? Questa strategia potrebbe davvero avvicinare l’obiettivo della pace? Quale soluzione propone?
Fornire armi all’Ucraina senza sforzarsi di trovare un dialogo o un confronto diplomatico non porta da nessuna parte, se non continuare ad assistere ad un massacro tra gli eserciti ivi compresi i danni collaterali nelle migliaia di vittime civili coinvolte.
Ritengo che un tentativo di dialogo tra le parti debba comunque essere avviato, anche da chi ha usato parole forti verso la controparte, ha applicato sanzioni verso la Russia o ha fornito o fornisce armi all’Ucraina. D’altra parte, se si ha la responsabilità di assumere la posizione di chi consegna di armi ad un belligerante, ci si deve assumere anche l’onere e l’onore di trovare una soluzione pacifica al conflitto, prima che la situazione precipiti irrimediabilmente. Il confronto delle reciproche posizioni non deve essere relegato solo al campo di battaglia, pena il perdurare di una situazione conflittuale estremamente dannosa in termini di vite umane spezzate e, per l’Ucraina, di lenta, ma inesorabile perdita di sovranità territoriale.
Anche il mancato incontro tra Papa Bergoglio e il Patriarca di Mosca Kirill, previsto per giugno a Gerusalemme e preparato da tempo, da ben prima che cominciasse la guerra in Ucraina, deve essere recuperato secondo ogni cristiana attenzione – o romana pietas – per rimediare agli efferati risvolti in corso tra due popoli fedeli, almeno sulla carta, all’insegnamento cristiano. Il confronto, il dialogo serve laddove è necessario, non solo quindi nei talk show o a distanza atlantica.
A Suo avviso, l’Europa e l’Italia in particolare possono permettersi di chiudere il dialogo diplomatico con la Russia?
L’Europa – e l’Italia in testa – non può permettersi di chiudere unilateralmente il dialogo diplomatico ora delegato alla pragmatica Turchia. Una Turchia che comunque ha delle evidenti compromissioni con entrambi le parti in causa: dalla Russia dipende dalle forniture di gas al 45% e dall’Ucraina riceve grano e denaro in cambio dei temuti droni Bayraktar TB2 e altro.
Al di là delle propagandistiche affermazioni del Ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov nell’intervista rilasciata a una trasmissione italiana, vorrei sottolineare come in alcuni suoi passaggi si delinea – e si ripete – l’apertura al dialogo che potrebbe essere un punto di partenza per un confronto diplomatico tra le parti: un’Ucraina neutrale e il riconoscimento in oriente e al sud delle autonomie dell’etnia russa, come peraltro previsto inizialmente con gli Accordi di Minsk, magari attraverso l’interposizione in situ dei caschi blu, attraverso dei plebisciti gestiti e validati dall’ONU.
L’Italia non sia succube delle decisioni altrui, ma faccia valere le sue ragioni legate sia agli aspetti umanitari da sempre rispettati sia dai suoi legittimi interessi nazionali, molto presenti nell’area, e assumi la “direzione della manovra” diplomatica con determinazione e fermezza.