Ultimi chilometri di corsa forsennata per il debito pubblico che dopo anni di crescita esponenziale – in cui la pandemia è stata solo un forte acceleratore, è bene ricordare – pare ormai prossimo a rallentare il passo.
Se da una parte, come rileva Bankitalia, ad agosto il debito ha superato il nuovo record di 2.734miliardi di euro, è vero dall’altra, che questi picchi sono destinati a ultimarsi a breve: il 2021 si chiuderà con una crescita del PIL che potrebbe sfiorare i 6 punti percentuale dando riflessi positivi sul debito che calerà al 154% del prodotto interno lordo.
Stime confermate anche dal FMI che prevede un’ulteriore discesa al 150% nel 2022 che dovrebbe raggiungere il 146% del PIL nel 2026.
Tutto merito del rimbalzo del PIL, come detto, e del sistema produttivo italiano che ha saputo rimettersi in moto dopo i momenti più cupi dell’emergenza pandemica, capace anche di staccare di diverse lunghezze i colleghi europei notoriamente più virtuosi.
Roba da far, magari non proprio sciabolare Cartizze, ma se non altro allentare un po’ la tensione negli uffici di via XX Settembre.
A Palazzo delle Finanze, tuttavia, hanno anche altri pensieri in questi giorni, con gli ultimi ritocchi al Documento Programmatico di Bilancio spedito con posta prioritaria a Bruxelles e più in generale la cornice della Legge di Bilancio 2022 da chiudere nel migliore dei modi.
Sulla Manovra sembrano esserci pochi margini di intervento: dovrebbe aggirarsi attorno ai 25 miliardi di euro al massimo e vedere il grosso del suo peso sbilanciato in interventi per la riduzione del cuneo fiscale, nell’ordine di 8-9 miliardi, lasciando un’altra fetta importante alla riforma degli ammortizzatori sociali e dunque a una revisione – parziale – del sistema pensionistico.
Tutto, grossomodo, qui.
Verrebbe dunque da chiedersi che ne è stato del fragoroso rumore fatto attorno alle grandi riforme, la bagarre – per dirla bene – politica; gli esercizi di dialettica dei massimi esponenti partitici, il punto tenuto, su questo o quell’altro tema, con esagerata foga.
La risposta è presto detta: niente.
Anche perché Draghi e il suo uomo dei numeri, Daniele Franco, sembrano infatti tirare dritto con passo spedito e a ritmo di pragmatismo. La riforma del catasto che pareva essere un casus belli all’interno della maggioranza in realtà non prevede alcuna rivalutazione ai fini fiscali; si tratta quanto più una fotografia di aggiornamento del territorio che per giunta sarà sviluppata in anni, non prima del 2026, stando ottimisti con le previsioni.
La legge delega sulla riforma del fisco, che ha subito due importanti rinvii e ha fatto tirar fuori le barricate dalle cantine impolverate del Parlamento, vedrà solo un primo assaggio – il taglio del cuneo di poc’anzi – con la Ldb2022.
Per rimettere mano alle aliquote IVA, terreno scivoloso per le possibili ripercussioni sulla domanda interna; il superamento dell’IRAP; un vero riordino delle tax expenditures ma anche solo la fusione tra agenzie (entrate e riscossione), ci vorrà tempo.
Tanto tempo.
Non meno di tre anni di decreti attuativi che ceselleranno, rifiniranno e in alcuni casi stravolgeranno i provvedimenti in base alle esigenze dettate dall’attualità. Il che vuol dire che queste riforme, se si faranno, spetteranno a un altro governo e soprattutto a un altro Parlamento.
Poco male, verrebbe da dire, perché in fondo la materia fiscale è ostica per definizione e lo è anche per i tributaristi, molti parlamentari di oggi potranno dunque trarre anche un sospiro di sollievo domani.
Ma il fiato sarà sempre più corto, perché se anche l’economia italiana riuscirà veramente a uscire dall’indolenza degli ultimi vent’anni e gli indicatori macroeconomici continueranno a migliorare; anche se il piano di riforme di cui il Sistema Paese ha vitale bisogno si diluirà nel tempo ma avrà comunque un suo corso, un altro scricchiolio per ora di fondo, inizierà a breve a essere allarmante, quello del welfare nel suo senso più ampio, che abbraccia il benessere previdenziale dei lavoratori e della collettività nel suo complesso.
Un sistema che lavora perennemente in debito non è chiaramente sostenibile a lungo. Basti pensare che il 57% dei contribuenti versa all’IRPEF 15 miliardi di euro annui ma costa, in salute, scuola e assistenza circa 174 miliardi di euro.
Che le entrate fiscali dello Stato, ad oggi di poco superiori a 513miliardi di euro, rivaleggiano con un tax gap di oltre 100miliardi; che lo zoccolo duro dei contribuenti “dalle spalle larghe” il famoso ceto medio che sostiene il Paese si assottiglierà sempre di più, anche considerando l’invecchiamento demografico galoppante che porterà con sé nuovi bisogni e meno gettito.
Parebbe quindi lampante che no, non si potrà ragionare sempre in debito e che andrà posto rimedio già nel breve termine. Eppure è un pensiero che non spaventa nessuno e a cui nessuno apertamente pensa, vivendo un eterno momento presente.
La ratio pare vivacchiare, in pacifico ostaggio dello status quo che non ha slancio per alcun futuro e ignora che una società che pensa distrattamente a tutti, ma a cui nessuno pensa realmente, è destinata al default.