Intanto, occhi di nuovo puntati sulla legge elettorale
I ballottaggi delle Amministrative di domenica 25 giugno hanno segnato una chiara vittoria del centrodestra, con conseguente battuta d’arresto per il Partito Democratico e le forze alla sua sinistra (la sconfitta del Movimento 5 Stelle era già emersa dopo il primo turno dello scorso 11 giugno). Tuttavia, se i numeri dei Comuni riconquistati o persi dalle coalizioni in campo sono incontrovertibili, è utile riflettere a mente fredda sulle problematiche che i principali schieramenti dovranno affrontare nei prossimi mesi.
In primo luogo, per quanto gli esiti del secondo turno abbiano confermato che la contesa per le Politiche non sarà limitata a Pd e M5S e che i partiti conservatori dispongono di consensi rilevanti nel Paese, allo stato attuale appare prematuro parlare di un centrodestra unito e ben posizionato per riconquistare Palazzo Chigi. Difatti, rimangono intatte le divisioni tra Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia sulle strategie da seguire (Silvio Berlusconi punta su una linea ispirata alle posizioni del Ppe, mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni rifiutano ogni accenno di moderatismo) e sulla leadership da proporre ai cittadini, così come non va dimenticato che la legge elettorale per i Sindaci è maggioritaria e molto diversa dai sistemi proporzionali in vigore per le Camere. Da questo punto di vista, importante sarà l’atteggiamento che assumerà Fi nel momento in cui si riparlerà di riformare l’Italicum (non è escluso che sul tema ci possano essere novità a breve): se insisteranno su un modello vicino alla legge tedesca, Berlusconi e i suoi dimostreranno di puntare più su intese post elettorali in Parlamento che non su accordi di coalizione da stringere prima del voto, in pieno stile maggioritario.
Per quanto riguarda il centrosinistra, la perdita di città simbolo come Genova, La Spezia, Pistoia e Sesto San Giovanni testimonia la persistenza di una frattura tra il Partito Democratico a guida renziana e una parte consistente dell’elettorato progressista. Al di là dei singoli contesti locali, se neanche la presenza di candidati sostenuti da schieramenti larghi (scissionisti di Mdp compresi) ha consentito ai dem di ottenere risultati positivi, ciò è il segno di un malcontento ormai cronico di fasce di cittadini di sinistra verso l’autosufficienza e la rottura con la tradizione coltivate negli ultimi anni da Matteo Renzi. Malcontento, che si traduce nella diserzione delle urne, tanto che non sembra valere più la regola in base alla quale la bassa affluenza premierebbe la mobilitazione dei votanti progressisti. Da un simile quadro, emerge che per il segretario del Pd è arrivato il momento di un cambio di passo che gli consenta di andare oltre il sostegno dei sostenitori più stretti e, soprattutto, di tentare la rappacificazione con una serie di mondi (su tutti, quello sindacale) necessari per tornare alla guida del Paese. Se non si dovesse assistere a nulla di simile, la strada per il centrosinistra si farebbe molto in salita e anche il tentativo di Giuliano Pisapia di costruire un soggetto neo ulivista rimarrebbe vittima della disputa tra renzismo e antirenzismo.
La situazione non sembra essere meno problematica per il Movimento 5 Stelle, che slogan a parte non sembra essere intenzionato ad affrontare quei nodi che, se non risolti, difficilmente lo porteranno oltre il 28-30% assegnatogli dai sondaggi: l’assenza di un metodo di selezione affidabile della classe dirigente (non è casuale che i 5 Stelle soffrano le Amministrative, dove il voto di opinione lascia spazio alla valutazione dei candidati proposti) e la poca chiarezza sulla governance del Movimento, dal momento che per scelte rilevanti alla democrazia diretta e alla regola “uno vale uno” si sostituiscono, non di rado, le volontà di Beppe Grillo. In altri termini, per l’M5S è davvero arrivato il momento di dimostrare di poter essere non solo una forza (per quanto efficace) di opposizione dura e pura, ma anche un’alternativa di governo credibile e pragmatica, in grado anche di riconoscere le difficoltà incontrate a Roma e Torino. Pure in questo caso, la mancanza di azioni nel prossimo futuro renderebbe stretto il sentiero per Palazzo Chigi.
Com’era prevedibile, dalla chiusura delle urne è ripreso il tam tam sui tempi di conclusione della Legislatura e, di conseguenza, sulla data delle prossime elezioni Politiche. Considerate l’alta instabilità politica e la velocità con cui possono variare gli eventi (se nelle settimane scorse aveva ripreso quota lo scenario di votazioni nel 2018, le ultime ipotesi vorrebbero l’apertura dei seggi a novembre 2017), l’unica cosa che si può affermare senza timore di smentite è che un anticipo del rinnovo delle Camere costringerebbe ognuno dei tre poli a fare i conti con le rispettive difficoltà.