Sono trascorsi quasi cento anni da quando Virginia Woolf intrecciò la libertà intellettuale alle cose materiali, riconoscendo a una stanza il valore simbolico di indipendenza economica, spazio e tempo personali, necessari a praticare il libero pensiero
Correva l’anno 1928 quando la celebre scrittrice inglese Virginia Woolf fu invitata presso i college femminili di Girton e Newnham, a Cambridge, per discorrere a proposito del tema “Le donne e il romanzo”. Nel suo discorso, dato alle stampe l’anno successivo con il titolo Una stanza tutta per sé, rivendicava la necessità per le donne di possedere una stanza, quindi uno spazio, e cinquecento sterline l’anno, una rendita, per poter praticare la scrittura e più ampiamente esercitare il libero pensiero.
Il saggio, divenuto nel corso degli anni un manifesto, «testo fondante la contemporanea riflessione su donne e scrittura (ma anche su donne e cultura, su donne e cultura patriarcale)», si apre significativamente con un’obiezione: «Ma insomma, potreste dire, ti avevamo chiesto di parlarci delle donne e il romanzo ‒ cosa ha a che fare questo con una stanza tutta per sé?». L’oggetto della perorazione sarà proprio il tentativo di spiegarsi, a partire da e attraverso una dinamica e virtuale conversazione tra il suo alter ego e le lettrici e i lettori. La scrittrice si arroga il diritto a sfidare la convenzione letteraria sia per gli argomenti trattati, prestando particolare attenzione agli aspetti più prosaici della realtà ‒ utilizzerà l’immagine di due pasti per denunciare la sperequazione di trattamento nei college maschili e femminili – e con essa prende congedo anche dalla tradizionale forma della trattatistica di intento didascalico, redatta con un linguaggio accademico e assertivo con il fine di incapsulare una verità e consacrarla a modello assoluto da imitare.
Al contrario, Woolf crea un personaggio concreto e realistico per sostenere il suo punto di vista, interrogandosi e contrattando continuamente il suo posizionamento, ribaltando le angolature da cui relazionarsi alla realtà, offrendo punti di vista altri e diversi per indurre il lettore e la lettrice a mettersi in discussione, a riflettere, a dubitare. Passeggiando nel prato del college fittizio di Oxbridge, termine derivante dalla fusione significativa tra Oxford e Cambridge, la narratrice confesserà la finzione «“io” è solo un termine di comodo per indicare qualcuno che non esiste realmente […] chiamatemi Mary Beton, Mary Seton, Mary Carmichael o qualunque altro nome vi piaccia ‒ la cosa non ha alcuna importanza», e guiderà i lettori e le lettrici in un viaggio volto a narrare l’esclusione delle donne dai luoghi del sapere, e con essi dalla “Storia”, ma anche e soprattutto a riscriverla da un punto di vista rinnovato, affermando che se è «sgradevole essere chiusi fuori»; forse «è peggio rimanere chiusi dentro».
La metafora dello spazio si sviluppa a partire dal giardino del college maschile dove alle donne non era consentito calpestare il prato, per cui la protagonista che si era audacemente avvicinata alle rive del fiume sarà prontamente ricondotta sulla “retta via” del vialetto di ghiaia; per poi raggiungere una biblioteca, ove però le era impossibile accedere se non accompagnata; fino al British Museum in cui noterà cataloghi pieni di libri sulle donne scritti da uomini, e penserà che invece non vale l’inverso. E ancora si interroga sulla ricchezza e la sicurezza di un sesso di contro alla povertà e all’insicurezza dell’altro, sulle conseguenze dell’assenza di modelli femminili nella tradizione e rivendicherà la necessità di realizzare una biblioteca che contenesse la storia della scrittura delle donne, avvalorando il lascito di quelle della classe media, che alla fine del Settecento avevano iniziato a scrivere non spinte dall’odio o dal risentimento per quella condizione, quanto dalla creatività, permettendo ad altre dopo di loro di guadagnare e vivere del proprio ingegno.
Il linguaggio usato da Woolf durante la perorazione, infatti, non sarà mai aspro, risentito, né pedante o retorico, sarà invece aperto, fluido, in certi frangenti anche accattivante e ironico. Motivo per il quale spesso la critica al femminismo eurocentrico le ha contestato la sua assenza di rabbia nel denunciare la condizione di oppressione delle donne operata dalla cultura patriarcale, la sua poca aderenza alla realtà concreta, perché ella stessa donna dell’alta borghesia e quindi privilegiata. A ben vedere, però, anche Woolf scrive da una condizione di minoranza, quella di essere donna: seppur non dedita al lavoro domestico sicuramente svantaggiata rispetto agli uomini perché non le era stato possibile accedere all’università, ma solo all’istruzione in casa. Woolf ne è consapevole e per questo propone una soluzione rivoluzionaria: dare voce al silenzio che ha contraddistinto le donne non attraverso il linguaggio degli uomini, ma elaborandone uno tutto nuovo, che contenesse in sé l’ideale androgino, ‒ negli stessi anni stava lavorando a Orlando ‒ inteso come «aspirazione a un’interezza che nasce dalla riconciliazione di polarità opposte, maschile e femminile». Una necessità di conciliare i generi, pur restando diversi l’uno dall’altra: questo il vero messaggio della pioniera del femminismo, che anticipa di fatto il pensiero della differenza sessuale che negli anni Settanta rivendicherà la centralità della differenza tra uomo-donna piuttosto che l’uguaglianza, come fulcro del discorso culturale. L’esperienza della marginalità diviene pertanto un valore aggiunto, un tratto distintivo, per dare vita a tutte quelle qualità e velleità sopite o sacrificate dalle donne per mancanza di condizioni materiali. È necessario quindi riscrivere la storia attraverso la propria genealogia femminile, riposizionandosi dal punto di vista luminoso e generativo che caratterizza le donne e che consente di trasformare la marginalità in arte, creando nuovi modelli cui le future generazioni possano identificarsi.
Alla ricerca della propria genealogia, va anche Teresa De Lauretis, il cui saggio intitolato significativamente Genealogie femministe. Un itinerario personale, contenuto in Sui generi. Scritti di teoria femminista (1996), costituisce un passaggio per la critica femminista rispetto a come era stata fino agli anni Novanta del Novecento, poiché rileva come «l’attività creativa e intellettuale delle donne sia stata caratterizzata da un nesso ricorrente tra conoscenza e reclusione, scrittura e silenzio». Tuttavia si domanda se la sorte di queste donne possa essere ricondotta esclusivamente a un dato storico e sociologico o se tale silenzio possa essere «specifico dell’esistenza materiale e semiotica delle donne», ponendo quindi l’accento critico sulle sovrastrutture che ingenerano il soggetto-donna e che di fatto ne condizionano l’esistenza prima ancora della classe sociale ed economica. A sostegno di questa interpretazione, De Lauretis osserva come nella Stanza Woolf utilizzi delle finzioni narrative per rivolgersi al suo pubblico, costituito da donne, affermando implicitamente che «la parola stessa di una donna è possibile soltanto come finzione». Allo stesso tempo però, le riconosce il merito di aver creato uno spazio discorsivo contraddittorio: se da un lato infatti «la comparsa delle donne sulla scena del linguaggio e della storia avviene nella consapevolezza che il linguaggio non le significa […] e che la storia ufficiale non le riconosce», dall’altro è proprio attraverso questo testo che si creano i presupposti perché si parli di donne e perché si crei una storia delle donne, una storia non con l’iniziale maiuscola ma sempre in divenire, molteplice, radicata nell’esperienza.
Questo processo tuttavia richiede uno sforzo: conoscere, studiare, scrivere qualunque cosa, purché si scriva, e più ampiamente praticare la propria arte, a partire dalla quotidianità che ci si trovi a vivere, dai mezzi che si abbiano, qualunque sia la frontiera da cui si parli. A questo proposito, Woolf immagina che Shakespeare avesse avuto una sorella di nome Judith dotata del suo stesso genio e si domanda come sarebbe stata la sua storia: dopo la costrizione al matrimonio, sarebbe probabilmente morta di parto oppure, dopo aver rinnegato la famiglia, sarebbe andata a bussare alle porte dei teatri e di fronte all’impossibilità di praticare la sua scrittura si sarebbe suicidata. Sarebbe morta, insomma, perché mancante delle condizioni materiali che già al momento della stesura del saggio iniziavano a profilarsi per le donne, le quali per questo, secondo Woolf, avrebbero dovuto cogliere l’opportunità:
Poiché io credo che se riusciremo ad avere cinquecento sterline l’anno e una stanza tutta per sé; se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se guarderemo oltre lo spauracchio di Milton, perché nessun essere umano deve precluderci la visuale; se guarderemo in faccia il fatto che non c’è un braccio al quale appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole, [..] allora si presenterà l’opportunità, e quella poeta morta, che era sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile.[…] Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena.
Sono trascorsi quasi cento anni da quando Virginia Woolf intrecciò la libertà intellettuale alle cose materiali, riconoscendo a una stanza il valore simbolico di indipendenza economica, spazio e tempo personali, necessari a praticare il libero pensiero. Una soluzione che può apparire scontata, in realtà la scrittrice fu la prima a vedere nella serratura alla porta la possibilità di pensare per conto proprio: «Chiudete a chiave le vostre biblioteche, se volete; ma non c’è nessun cancello, né serratura, né chiavistello che voi possiate mettere alla libertà del mio pensiero». Per tali motivi, non solo è considerata pioniera dell’emancipazionismo femminile, ma il suo pensiero si contraddistingue per un valore politico sempre attuale, un messaggio che invale nel presente ed è necessario conoscere per combattere le discriminazioni sociali, economiche e culturali che le donne, e con esse tutte le altre minoranze, ancora oggi devono affrontare. Soprattutto perché ricorda che i diritti implicano una responsabilità. Non basta averli acquisiti grazie alle lotte di altre e altri: occorre praticarli, come esseri pensanti e militanti, senza riconoscersi in atteggiamenti mortiferi tipici delle belliche società attuali, ma creando pensieri differenti e di felicità. Una sfida che si può dire vinta dalla marea di donne che a livello globale milita e grida a quella porzione di mondo maschile che ancora oggi vorrebbe ridimensionarle al secolare silenzio, il motto woolfiano: “Thinking is my fighting.”