Ecco perché i parlamentari che decideranno di restare “liberi” potrebbero rivelarsi elisir di lunga vita per la prossima legislatura
Nelle scorse due settimane (da quando cioè le liste dei partiti e delle coalizioni sono diventate ufficiali e definitive) i giornalisti hanno passato al setaccio l’elenco dei candidati alla ricerca dei cosiddetti impresentabili. E come era ovvio ne sono stati individuati numerosi, dal massone al violento, passando per l’indagato per arrivare a chi era già stato candidato in passato in altre forze politiche e a chi è stato coinvolto nello scandalo “rimborsi” (questi ultimi due casi riguardano solo il M5S per via delle loro regole interne).
Su quasi ogni “impresentabile” sono state spese tante parole (dopotutto siamo in campagna elettorale) e i capi dei partiti coinvolti da questa problematica si sono subito affrettati a espellere o invitare “a lasciare” i candidati non più graditi. Il problema però è che tutti questi “inviti a lasciare” sono destinati a restare lettera morta. Perché? Per un motivo molto semplice: dopo la consegna e l’accettazione delle liste queste sono immodificabili, intoccabili, anche se un candidato dovesse morire. Il ritiro di un candidato è possibile solo prima che le liste diventino ufficiali, una volta tali non possono più essere modificate (per lasciare tempo sufficiente per la stampa dei manifesti elettorali e delle schede per le votazioni).
Il leader del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio nei giorni scorsi ha detto che i candidati espulsi potrebbero rinunciare all’elezione o che gli uffici elettorali potrebbero arbitrariamente non proclamarli eletti. Tutto ciò non è possibile, la proclamazione segue ovviamente una procedura automatica e se un candidato ha un numero sufficiente di voti ad essere eletto allora viene proclamato tale. Perché? Pensate a cosa potrebbe succedere in caso di pressioni indebite o di intimidazioni di tipo mafiose nei confronti dei candidati (per costringerli a rinunciare all’elezione) o nei confronti dei componenti dell’ufficio elettorale (per non proclamare eletto un determinato candidato risultato vincente).
Sempre nei giorni scorsi, anche il costituzionalista Michele Ainis ha sostenuto che l’impossibilità di rimuovere un candidato dalle liste sia una fake news e che in caso di “eventuale rinuncia alla candidatura” ciascun partito possa sostituire un proprio candidato con un altro presente nella lista dei “supplenti”, cioè l’elenco di candidati di riserva presentati contestualmente a quelli ufficiali. Ma anche questa circostanza non è più possibile perché l’articolo 22 del Testo unico delle leggi elettorali indica una serie di cose che l’Ufficio centrale circoscrizionale può fare ma solo entro il giorno successivo alla scadenza del termine stabilito per la presentazione delle liste dei candidati, quindi teoricamente in queste elezioni entro il 30 gennaio. Per la sostituzione dei candidati si è fuori tempo massimo.
Anche i candidati invitati a lasciare, in caso di elezione non potranno rinunciare al seggio parlamentare su invito del loro partito (magari sulla base di un contratto fatto firmare all’atto di accettazione della candidatura), ma potranno provare a “rinunciarvi” solo sulla base di una loro decisione personale (che non è affatto detto che prenderanno) e solo presentando le dimissioni che dovranno essere confermate da un voto segreto della Camera di appartenenza. Perché? Un candidato, una volta eletto diventa membro del Parlamento e in quanto tale, come recita l’art. 67 della Costituzione, “rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. E non è affatto scontato che la Camera di appartenenza voti a favore delle dimissioni (si pensi al caso del senatore ex M5S Giuseppe Vacciano che ha presentato cinque volte le sue dimissioni, sempre respinte dal Senato).
Un’altra fattispecie è quella del candidato che si autosospende dal proprio partito o movimento. In caso di elezione avrà solo due alternative: iscriversi al gruppo di una qualunque forza politica o iscriversi al Gruppo Misto. Non ci sono terze vie: bisogna necessariamente aderire ad un gruppo parlamentare.
Spingendo più in là questo ragionamento si arriva ad un dato di fatto paradossale. Mancano due settimane alle elezioni e più di un mese alla prima riunione del nuovo Parlamento (previsto per venerdì 23 marzo) ed è già chiaro che avremo un Gruppo Misto sia alla Camera che al Senato. Vi confluiranno verosimilmente tutti quegli eletti che sono stati candidati da una coalizione ma che appartengono a formazioni politiche che potrebbero non avere i numeri per poter costituire un gruppo autonomo, gli eletti che sono stati espulsi/sospesi a vario titolo dai loro partiti, o che si sono autosospesi o sono in rotta con la forza politica di appartenenza, insomma, tutti coloro che opteranno per questa scelta per le ragioni più varie, con pieno diritto e senza essere obbligati a chiarirne i motivi.
Storicamente, sia nella cosiddetta Prima Repubblica che nella Seconda, i componenti del Gruppo Misto di Montecitorio e di Palazzo Madama hanno sempre fornito dei parlamentari di “riserva” alle maggioranze di governo. Nella legislatura che prenderà il via a fine marzo questa circostanza potrebbe ripetersi. Le elezioni dovrebbero, salvo sorprese, restituirci un “hung Parliament”, con nessuna delle coalizioni e nessun partito in grado di avere la maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Una contingenza nella quale il Gruppo Misto potrebbe rivelarsi decisivo sia per la formazione di un Governo che per la durata stessa della legislatura, scongiurando uno stallo istituzionale lungo e potenzialmente critico nel primo caso e il ritorno repentino al voto nel secondo.