di Francesco Scolaro
La partita per l’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (che risale al 1970) è entrata nella fase calda. Il caso vuole che ciò avvenga proprio all’inizio della stagione autunnale (il rimando al cosiddetto “autunno caldo” del periodo delle lotte sindacali della fine degli anni ‘60 è fin troppo scontato).
In breve, l’art. 18 prevede che il giudice possa stabilire il reintegro del lavoratore sul posto di lavoro in caso di licenziamento avvenuto senza giusta causa. Questa importante norma non si applica a tutti i lavoratori, riguarda infatti solo i lavoratori con contratto a tempo indeterminato di aziende con più di 15 dipendenti. Secondo i dati pubblicati su la Repubblica del 29 settembre, sarebbero 7,9 milioni i lavoratori italiani a rientrare nella descritta categoria, mentre coloro i quali non sarebbero soggetti a questa forma di tutela sarebbero 14,5 milioni. I numeri forniti dal Corriere della Sera (sempre del 29 settembre) sono diversi: 6,5 milioni tutelati contro il licenziamento ingiusto su un totale di 22 milioni di lavoratori.
In materia di riforma del mercato del lavoro, riteniamo che possa essere più utile e vantaggioso iniziare dalla semplificazione della fase di ingresso, riducendo la corposa normativa e gli ostacoli burocratici, piuttosto che togliere una tutela che non riguarda la maggioranza dei lavoratori. Più che la possibilità di reintegro in caso di licenziamento, quello che spaventa gli investitori (non solo quelli esteri) è l’incertezza dei tempi (lunghi) delle relative cause giudiziarie e la mancanza di prevedibilità degli esiti dei giudizi, che cambiano a seconda del giudice e del tribunale.
In questa sede non vogliamo entrare nel merito della proposta di riforma avanzata dal Governo all’interno del cosiddetto Jobs Act, ma la querelle in corso sulla ipotizzata cancellazione dell’art. 18 offre uno spunto di riflessione sulla tecnica di Governo e la strategia politica utilizzate dal Presidente del Consiglio.
Da quando il Governo è entrato in carica (220 giorni), Renzi ha più volte avuto bisogno di rilanciare le sorti del suo Governo, alzando sempre la posta in gioco. La sensazione è che la questione della soppressione dell’art. 18 non costituisca al momento un vero problema e che Renzi, spingendo l’acceleratore proprio su un tema così delicato, abbia trovato un diversivo per coprire i risultati del suo Governo, non esattamente in linea con le attese né con le promesse. In occasione del forte ritardo con il quale è stato pubblicato il DL Sblocca Italia, abbiamo già avuto modo di sottolineare come il Governo dovesse innanzitutto ridurre lo spread tra annuncio, approvazione e entrata in vigore dei provvedimenti per riuscire a mantenere alta la fiducia dei cittadini ed essere realmente incisivo. Come un pugile che non è riuscito a prendere bene le misure al suo avversario sul ring, per evitare di finire KO troppo presto, cerca di prendere tempo, la sensazione è che Renzi non sia riuscito ancora a capire completamente come affrontare l’ingessato establishment economico italiano, intriso di corruzione e di asfissiante burocrazia.
Renzi è ancora in fase di studio e sembra ormai evidente che non sia riuscito a imprimere al Governo la sua capacità di spinta e la sua energia. Renzi continua a prospettare fantastiche e assolutamente condivisibili riforme, delle quali però non si riesce a comprendere bene i lineamenti né le tempistiche.
Esaminando il “modus governandi” di Renzi e confrontandolo con quello di Berlusconi, si possono ravvisare alcune similitudini. Anche Berlusconi aveva bisogno di indicare e descrivere – rendendolo più o meno identificabile – un “nemico”, che spesso veniva individuato in un’intera categoria (su tutte, quella dei giudici). I “nemici” di Renzi sono, di volta in volta, la vecchia classe dirigente e politica, i sindacati, i “gufi”, i poteri forti. Entrambi cercano di conquistare (e di conservare) la fiducia degli elettori, che quindi finiscono per non votare più per un partito o un movimento politico ma per la persona. Entrambi polarizzano la competizione politica, provando a spingere il popolo dalla loro parte e a coinvolgerlo emotivamente ricorrendo alla terminologia tipica dei momenti di conflitto.
Dopo le elezioni del 2001 Berlusconi ha potuto contare su quella che è tuttora la più grande maggioranza parlamentare a sostegno di un Governo nella storia dell’Italia repubblicana: 368 seggi alla Camera e 176 al Senato. Questo risultato straordinario fu quasi replicato sempre da Berlusconi nel 2008, quando i seggi appannaggio della maggioranza di centrodestra diminuirono, ma di poco, sia alla Camera (344) che al Senato (174). Renzi si appoggia su una maggioranza in Parlamento neanche lontanamente paragonabile a quelle berlusconiane. Ecco perché è ancora più difficile riuscire a portare a compimento le riforme messe in cantiere ed ecco perché le elezioni non sembrano poi così lontane.
Renzi sta governando seguendo uno stile e delle linee guida molto simili a quelle di Berlusconi. Speriamo solo che i risultati siano diametralmente opposti.