Tra centrodestra (in pole position per Palazzo Chigi) e M5S (che punta sugli “indifferenti”), per Pd e sinistra rischio irrilevanza
Con l’elezione di Nello Musumeci a presidente della Regione si è chiusa la partita siciliana che, nelle ultime settimane, ha portato i principali leader politici nazionali a concentrarsi sul voto nell’isola. Al termine dello scrutinio, il candidato del centrodestra ha fatto registrare il 39,8% dei voti, seguito dal 34,7% di Giancarlo Cancelleri dell’M5S (in grado di ottenere oltre 200 mila consensi in più di quelli raccolti dal Movimento) e, più a distanza, da Fabrizio Micari (fermo a circa il 19% delle preferenze, meno di quanto riportato da Pd e alleati) e dall’esponente di Mdp Claudio Fava, che non è andato oltre il 6%. Contro le aspettative della vigilia, Musumeci potrà contare anche sulla maggioranza dei 70 seggi dell’Ars, evitando così le difficoltà vissute dall’ex governatore Rosario Crocetta dopo la tornata del 2012.
Lasciando sullo sfondo le dinamiche che si innescheranno ora a Palermo, è a questo punto opportuno provare a tracciare un primo quadro dell’impatto che le elezioni di domenica scorsa avranno sulla scena politica nazionale, dal momento che non ci saranno altri appuntamenti prima delle Politiche previste tra marzo e maggio 2018.
Partendo dallo schieramento vincitore, il centrodestra appare come mai prima d’ora in pole position per la conquista di Palazzo Chigi. Considerando le caratteristiche del “Rosatellum 2.0”, a oggi l’ostacolo principale per i conservatori è rappresentato dal contrasto tra l’anima moderata della coalizione incarnata da Silvio Berlusconi e l’asse sovranista formato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Al di là delle dichiarazioni e degli entusiasmi di facciata, la vicenda che ha portato alla scelta di Nello Musumeci come candidato dello schieramento siciliano descrive al meglio come non siano sopite le dispute per la guida della coalizione.
Non è infatti un mistero che Berlusconi non fosse entusiasta del neo presidente, poiché ritenuto troppo spostato a destra, e allo stesso modo non è passata inosservata, nelle scorse ore, la dicotomia tra l’analisi del voto effettuata dal leader di Forza Italia (che ha descritto il centrodestra liberale come unico argine ai grillini) e le riflessioni formulate dai responsabili di Lega e Fratelli d’Italia, secondo i quali sarebbe ormai dimostrato che le elezioni non si vincono più al centro. In ogni caso, se dovesse reggere il progetto di presentarsi ai cittadini ognuno con il proprio capolista, lasciando che siano i consensi ottenuti a determinare il nome dell’eventuale premier, i conservatori avrebbero tutte le carte in regola per fare il pieno di collegi uninominali al Nord (rimanendo competitivi anche al Centro-Sud) e per superare il 30% nella quota proporzionale. Certo, rimarrebbero non poche le divergenze sul piano dei programmi, ma in passato il centrodestra ha dato più volte prova, se necessario, di poter trovare la quadratura del cerchio in tempi rapidi.
Sul fronte del Movimento 5 Stelle, il secondo posto di Cancelleri rappresenta una battuta d’arresto, mitigata solo in parte dalla condizione di primo partito della Sicilia. Un traguardo di lista, dunque, reso sterile dalle capacità degli avversari di costruire coalizioni, che tra qualche mese potrebbe vanificare anche l’obiettivo pentastellato di ricevere l’incarico di formare il prossimo Governo. Se si osservano i sondaggi e le analisi sugli orientamenti degli italiani, emerge chiaramente che se i grillini non intendono rinunciare ai veti sulle alleanze l’unica possibilità di una loro vittoria alle Politiche passa dal recupero di una fascia consistente di elettori che ora si rifugiano nell’astensione.
Vanno in questa direzione le dichiarazioni rilasciate ieri da Luigi Di Maio, secondo il quale gli unici avversari del Movimento sarebbero a questo punto gli “indifferenti”, e probabilmente pure la sua scelta di annullare (pochi giorni dopo averlo richiesto) il confronto televisivo con Matteo Renzi, forse ritenuto più rischioso che utile per la conquista di consensi. In ogni caso, si tratta di una strada in salita, dal momento che l’M5S sembra da qualche tempo aver raggiunto il massimo del proprio seguito e che, soprattutto, l’arrivo di nuove notizie negative sulle amministrazioni di Roma e Torino continua a mettere in dubbio l’affidabilità della formazione pentastellata.
Per quanto riguarda in ultimo luogo il centrosinistra, i risultati siciliani (cui va sommato quanto accaduto a Ostia) dicono senza mezzi termini che, se non si invertirà la rotta, l’assetto tripolare scaturito dalle elezioni del 2013 rischia di trasformarsi in un nuovo bipolarismo, limitato a centrodestra e Movimento 5 Stelle. Le divisioni tra il Partito Democratico e le forze collocate alla sua sinistra hanno infatti reso ininfluenti le candidature di Micari e Fava, e lo stesso scenario ha alte probabilità di replicarsi nel prossimo futuro sia su base territoriale (non va dimenticato che nel 2018 si vota anche in Lazio e Lombardia) che per il rinnovo del Parlamento. Dal momento che la sconfitta di domenica scorsa è solo l’ultima di una lunga serie, per i progressisti è arrivato il momento di sciogliere una volta per tutte il nodo della permanenza o meno di Renzi nel ruolo di leader dello schieramento.
Sebbene appaia evidente che la figura dell’ex premier non sia la più adatta a unire il centrosinistra, e che una sua rinuncia alla candidatura a Palazzo Chigi aiuterebbe il confronto tra Pd, Mdp e Sinistra Italiana, va tuttavia rimarcato che l’eterno dibattito sul segretario dem non può e non deve costituire l’unica fonte di discussione. In gioco c’è la direzione da imprimere nei prossimi anni al Paese, e concentrarsi sugli organigrammi o far prevalere i risentimenti sulle valutazioni politiche sarebbe incomprensibile agli occhi degli elettori. Di conseguenza, prima i partiti progressisti (nessuno escluso) inizieranno a discutere di programmi e più chance avranno di sfuggire a un tracollo che oggi si annuncia inevitabile.