Alessandro Giovannini, avvocato cassazionista e docente all’Università degli Studi di Siena, commenta la proposta avanzata da Italia, Germania, Francia e Spagna, sul tavolo del prossimo Ecofin
di Valentina Magri
Nella riunione dell’Ecofin del 15-16 settembre l’Italia, insieme con Germania, Francia e Spagna, combatterà la battaglia per una web tax europea. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha infatti sottoscritto una dichiarazione politica congiunta con gli altri ministri delle Finanze di Germania, Francia e Spagna, a sostegno di una tassazione delle imprese multinazionali che operano nel settore. L’obiettivo è garantire equità fiscale e concorrenza leale nell’era dell’economia digitale, sollecitando una maggiore tassazione dei profitti delle imprese. La dichiarazione è stata inviata a Toomas Töniste, ministro delle Finanze dell’Estonia, nazione presidente di turno dell’Unione Europea, e per conoscenza al Commissario europeo Pierre Moscovici. LabParlamento ha chiesto un parere sulla proposta ad Alessandro Giovannini, professore ordinario di diritto tributario nell’Università degli studi di Siena, avvocato cassazionista, commercialista e revisore legale dei conti.
Cosa ne pensa della web tax transitoria attualmente in vigore in Italia, introdotta dall’emendamento di Francesco Boccia alla manovra correttiva?
Quella di Boccia è una proposta minimale, che già andava nella direzione di quella presentata da Padoan e dai suoi omologhi di Germania, Francia e Spagna. Quest’ultima colmerebbe una lacuna dei sistemi tributari europei, non più tollerabile dal mio punto di vista, oltre che di altri studiosi.
A quale lacuna allude?
Attraverso l’e-commerce le società del web che operano dall’estero drenano ricchezze dai paesi dove vendono. Se io ad esempio acquisto un libro su Amazon, non lo compro più nella libreria sotto casa. Così facendo, non faccio più girare l’economia del mio paese, ma il profitto è acquisito da un operatore del web, che si trova tipicamente in paese con bassa tassazione, in un paradiso fiscale o comunque in uno stato estero. Credo quindi sia giusto portare la tassazione nel paese dove è effettuata la vendita, perché gli operatori del web drenano ricchezza nazionale.
All’interno dell’UE si è creata negli ultimi decenni una “guerra fiscale con il tributo merci”: il tributo è divenuto una merce, e i colossi del web stabiliscono le sedi fiscali dove quest’ultimo costa meno. Ad esempio, Apple va in Irlanda. L’UE non può fare molto, non avendo competenza sulle imposte sui redditi, ma possono agire i singoli paesi. In questo senso, un accordo tra quattro paesi europei è molto positivo.
Come giudica la tassazione sul fatturato con aliquota del 5-6% anziché sugli utili, prevista dalla proposta congiunta di web tax di Italia, Francia, Germania e Spagna?
Dei tanti metodi esistenti per calcolare una web tax, questo è senz’altro il più facile da applicare. Siamo solo all’inizio del progetto web tax, e qualche aspetto andrebbe affinato: bisognerebbe capire meglio come si determina il fatturato e che rapporto c’è tra la web tax e l’Iva, che potrebbe essere duplicata. Sono aspetti tecnici, ma non sono difficili da chiarire.
Si aspetta che sarà raggiunto un accordo sulla web tax?
Secondo me uscirà una bozza di intesa tra i quattro promotori della web tax, che poi i singoli governi dovranno far approvare ai parlamenti nazionali. Non credo che altri paesi abbiano intenzione di aderire. La questione della web tax ripropone in miniatura il nodo di un’Europa a due velocità, che prima o poi andrà sciolto.