L’accordo sembra sempre più lontano. Alessandro Giovannini, avvocato cassazionista e docente all’Università degli Studi di Siena, a LabParlamento
di Valentina Magri
Lo scorso fine settimana la commissione Bilancio del Senato ha approvato l’emendamento Mucchetti alla Web tax. LabParlamento ha chiesto un parere sul tema ad Alessandro Giovannini, professore ordinario di diritto tributario nell’Università degli studi di Siena, avvocato cassazionista, commercialista e revisore legale dei conti.
Qual è il suo parere sull’emendamento Mucchetti alla Web tax?
“L’emendamento del Presidente Mucchetti va nella direzione giusta: tassare i grandi colossi del digitale risponde a un’esigenza non soltanto di equità ma anche di protezione delle finanze pubbliche e della ricchezza nazionale. Anzi, per parte mia, come ho già detto anche a LabParlamento, credo che la vera esigenza sia quest’ultima, quella cioè di proteggere la nostra economia anche attraverso lo strumento fiscale.
L’emendamento quindi è da salutare favorevolmente anche se, rimettendo al Ministero dell’Economia l’individuazione concreta delle attività dematerializzate alle quali applicare l’imposta, lascia ancora margini di dubbi applicativi ad oggi non valutabili”.
Dopo le pressioni a livello europeo, il Governo sembra avere meno fretta, visto che la Web Tax entrerebbe in vigore solo nel 2019. A cosa è dovuto questo rallentamento?
“I motivi possono essere molti. Il principale tuttavia è strettamente tecnico collegato cioè al fatto che gli intermediari finanziari, le banche e i circuiti delle carte di credito devono attrezzarsi, anche dal punto di vista informatico, per poter applicare la nuova Legge”.
Cosa ne pensa della scelta di utilizzare le banche per riscuotere la Web tax?
“Tecnicamente le banche o gli intermediari finanziari diventerebbero responsabili di imposta e non sostituti, ma al di là di questa qualificazione è da ritenere che coinvolgere nel prelievo questi soggetti sia la sola strada che possa assicurare un qualche risultato positivo, dato che ormai tutti i pagamenti avvengono tramite moneta elettronica”.
Ritiene adeguata l’aliquota dell’imposta sulle attività dematerializzate?
“L’entità dell’aliquota è una scelta chiaramente politica e quella del 6% prevista per le attività dematerializzate è, se valutata dal punto di vista tecnico, piuttosto modesta, anche se bisogna considerare che essa viene applicata sui ricavi e non sull’utile fiscale e che, probabilmente, quegli stessi ricavi concorreranno anche alla tassazione nei paesi esteri dove le società del digitale hanno sede”.
Secondo alcuni si rischia che sia pagato il 6% di imposta anche per i prodotti italiani venduti all’estero. Si tratta di un rischio concreto e vale la pena di correrlo?
“Tutto dipende da cosa faranno gli altri paesi. La verità è che l’Europa non ha una politica fiscale omogenea e men che meno coesa su questi temi e, più in generale, sulle questioni attinenti alle imposte dirette, ossia quelle che colpiscono redditi, ricavi o patrimoni. L’Europa, intesa come comunità politica, da questo punto di vista è inesistente”.
E’ ancora possibile raggiungere un accordo sulla Web tax con l’Europa?
“Me lo auguro, perché sarebbe un segno concreto della coesione dei paesi appartenenti alI’Unione Europea. In concreto però dubito che ciò possa avvenire. D’altra parte, il paese guida, la Germania, è in questo momento senza un governo con pieni poteri e mi pare difficile che una decisione di questa portata possa essere presa con una Cancelleria claudicante”.